Se fossero i sogni a provocare la febbre, o la febbre i sogni, Walter Gilman non sarebbe stato in grado di dirlo.
(Howard Phillips Lovecraft – “I Sogni nella Casa Stragata” – 1933)

Esattamente questo. Occhi aperti o chiusi. Le palpebre si movono ma è come azionare al buio un interruttore rotto. Click. Click. Click. Click. Nero, nero, nero, nero. Galleggio nell’oscurità  invischiato nelle lenzuola. Febbre alta che inizi a sentire il silenzio friggere, intorno, ovunque, fino a quando diviene intollerabile. Alla Mente. Ogni piccolo suono è il tuono nella cacofonia entropica dell’universo che si espande. Eppure perfino quel ticchettare. Sono i miei nervi, sotto le palpebre, li sento. Potrei sentire l’aria infinitamente piccola, planare lieve sulla pupilla, infinitamente grande.
E dentro, dietro l’iride spalancata lucida come una bolla pronta ad esplodere, ancora il nero. Era già  dentro o sta solo colando fuori.

“Morto” dei Morkobot è il viaggio psichedelicamente atemporale verso l’oscurità  venuta dallo spazio. Propulsione due bassi distorti e ronzanti e una batteria granitica. Se con “Mostro” predecessore e secondo anello di questa trilogia, i Morkobot si erano spinti in cerca di nuove idee e suggestioni, con questo ambizioso monolito di quaranta minuti idealmente separato in 3 parti ma di fatto un unico brano ininterotto, sembrano trovare la componente finale e più astratta: l’arte del disegnare labirinti, ovvero saper imparare a perdersi.

“Morto” è un labirinto sonico, fragorosamente inciso a colpi di basso e distorsore, in un mandala di grafite nera manufatto alieno tornato dallo spazio. Tellurico ma capace di generare degli autentici momenti di stasi onirica, come il silenzio solenne e carico di energia elettrostatica che rimane dopo il rombo del tuono.
Disco difficilissimo da smontare, sempre che l’operazione abbia in questi casi una qualche utilità . Inquietante per delle sue logiche geometriche assolutamente incomprensibili, psichedeliche eppure in qualche modo ferree, si potrebbe rigirare su se stesso come un quadro di Escher. Innalza e precipita senza perdere continuità  con le metriche acuminate di una struttura gotica. Fino alla regressione dei 5 minuti finali, smontandosi, sgretolandosi in dettagli minuscoli che scivolano verso un abbisso di tastiere dissonanti. Solo allora si alzano i venti della tempesta di polvere cosmica, eppure c’è un pulsare. Costante. Qualcosa alla fine della morte?
Space-post-metal per viaggiatori siderali.