Pubblicare un’opera come “Embryonic” oggi non è saggio. Poco tempo, troppa musica, settanta minuti, poco tempo. L’opinione generale su questo tipo di operazioni è che siano segno di inutile pomposità , di ingiustificate manie di grandezza. Tolto il superfluo e ridotto il rimanente in un singolo disco, si dice nei migliori dei casi, il risultato non sarebbe neanche male. Peccato che si sia voluto strafare. Questo si dice, e spesso a ragione. Poi ovvio che se tali ragionevoli obiezioni ci si ritrova a farle a un signore in completo grigio che è solito camminare sopra le folle dentro una bolla di plastica, il discorso diventa un filo più complicato. O meglio, perde gran parte della sua ragionevolezza. Il punto di partenza è che dai Flaming Lips era più che lecito aspettarsi tutto questo. Anzi, visti i toni (relativamente) leggeri delle ultime due prove in studio, quasi ci si stava preoccupando. Ma ora siamo tutti molto più sereni, cullando felici il nostro mal di testa.

Perchè il mal di testa ascoltando “Embryonic” arriva, è una certezza. La psichedelia fa questo effetto. Si può dire forse che sia il suo obiettivo primario: sovraccaricare il cervello di stimoli sonori fino a farlo lamentare per il troppo lavoro. A volte il risultato è solamente fastidioso: quando invece ogni particella si combina nella giusta e implacabile sequenza, il mal di testa diventa un affare piacevole. Emicrania soddisfacente. Lasciare che il flusso dei suoni abbassi le difese dell’attenzione cosciente e perdersi confondendo le tracce tra loro. Questa qual’era? Ah, ma siamo già  alla otto. E la sei e la sette quando sono passate? E’ esattamente l’effetto che produce “Embryonic”: mal di testa e apnea sonora. Accolti con favore. Appunto, psichedelia.

Alla luce di tutto questo, soffermarsi sulle singole canzoni rischia di far perdere buona parte del valore dell’album. Fatta eccezione per “I Can Be A Frog”, impreziosita dalla partecipazione di una Karen O adorabile e instabile, addetta ad imitare versi animali, riesce difficile trovare momenti abbastanza equilibrati per poter ambire al ruolo di singolo. Da escludere senza dubbio la serie ‘zodiacale’ (“Aquarious Sabotage”, “Gemini Syringes”, “Sagitarrius Silver Announcement”, “Scorpio Sword”, “Virgo Self-Esteem Broadcast”), derivata da una collezione di jam e improvvisazioni, e responsabile di alcuni tra i momenti più destabilizzanti dell’album, con saturazioni sonore, scherzi rumoristici e cambi d’atmosfera repentini. Il resto della scaletta si divide tra momenti più eterei, rarefatti e galleggianti, che guardano verso i primi anni di carriera dei Pink Floyd (ad esempio “If”, “Your Bats” o “The Impulse”), e i numeri in cui rispunta fuori senza compromessi l’anima kraut dei Flaming Lips, suoni grassi e ruvidi e tempi martellanti (“See The Leaves” e “Silver Trembling Hands”, per citarne solo un paio).

Per certi versi risulta inevitabile parlare di “ritorno al passato”, ai tempi in cui i Flaming Lips se ne uscivano fuori con idee folli come “Zaireeka”. Forse però per “Embryonic” la cosa migliore è dire ‘ritorno d’identità ‘: Wayne Coyne e compagni restano quella banda di fuori di testa che ricordavamo e sono ancora più che capaci di maneggiare la materia psichedelica e creare percorsi sonori ipnotici e intricati. Pubblicare un’opera come “Embryonic” oggi non è saggio. A leggere questa frase, è certo, i Flaming Lips sorriderebbero beffardi.

Credit Foto: George Salisbury