Leggere le pagine dei vecchi diari polverosi conservati in soffitta per motivi inspiegabili è terapeutico. Anche quando si finisce per scoprire che la persona che ha scritto quelle righe non sei più tu, che le parole buttate giù di getto in un impeto di rabbia quando avevi tredici anni e non capivi nulla del mondo e della vita non ti rappresentano più. Fa crescere. E pensare. Ascoltare i dischi di Tim Shoewalter, che ama nascondersi dietro il moniker Strand Of Oaks, è un po’ come fare i conti con quei diari. Strano. Inquietante. Spiazzante. Perchè Tim è uno che scava a fondo, che non si accontenta di navigare tranquillo sulla superficie dei sentimenti. Sembra aver costantemente bisogno delle tempeste, della passione, delle onde gigantesche, del pericolo sottile che dà  rischiare la vita (e in un modo o nell’altro la vita finisce sempre per rischiarla).

Musicalmente Strand Of Oaks è uno strano animale: può passare con rapidità  incredibile dal commovente, essenziale folk acustico a canzoni che dimostrano tutta la sua passione per i sintetizzatori Moog. O meglio era uno strano animale. Perchè nel frattempo è arrivato “Heal”. Il quarto disco, quello della definitiva rinascita, quello in cui lo strano animale decide che venire a patti e accettare di essere addomesticati non è poi così male. Via le chitarre acustiche, elettricità  al massimo. Si cambia. Più che una cura un esorcismo in cui i fantasmi vengono finalmente chiamati per nome, i demoni imbavagliati, messi a tacere. Dieci pezzi liberatori dove Tim sussurra, urla, si sfoga, si confessa. Vive e suona senza rimorsi, mettendosi a nudo come mai prima. Celebrando il passato da adolescente musicofilo e un po’ nerd, rendendo omaggio ai suoi idoli (un certo signor Jason Molina a cui è dedicata la malinconica “JM”, con una chitarra che sembra penetrare a forza nei sogni più perversi e fa coppia fissa con quelle ben più cattive di “For Me”) ma riuscendo anche a guardare avanti nella poetica, disarmante “Woke Up To The Light” e in una “Plymouth” che ricorda le melodie dei primi R.E.M.

Un album indie fatto e finito questo “Heal”, battezzato da un assolo killer di J. Mascis in “Goshen 97”. Ma anche molto di più grazie a qualche ben studiata eccentricità  (il sorprendente elettro pop di “Same Emotions”, “Wait For Love” e della martellante “Heal”, ballad mutanti come “Mirage Year”dall’aspetto delicato ma dalla distorta anima rock). L’ennesima prova della maturazione di un artista da tempo destinato al successo ma finora rimasto sempre un passo indietro rispetto alle attese del circo mediatico impazzito. Ora quel passo tanto pronosticato Strand Of Oaks ha deciso di farlo e al diavolo paure e incertezze. I diari stavolta non tornano in soffitta ma si mettono in valigia per trarne la miglior ispirazione possibile, come succede nel ritornello di “Shut In”: It’s not as bad as it seems and we try in our own way to get better even if we are alone. Parole che sanno di vittoria più che di rimpianto. Una vittoria contro se stessi. E allora cantale ancora, Tim (ti meriteresti mezza stelletta in meno perchè “Same Emotions” è proprio kitsch ma chissenefrega).

Credit Foto: Dusdin Condren, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons