Ai primi ascolti del loro ultimo lavoro “Night thoughts” mi era sembrato che ci fosse come una ricerca di identità , di tirare le fila nel ripercorrere le atmosfere più varie dalle influenze anni ’60 in avanti, ma in alcuni casi nelle espressioni più “epiche” di alcuni brani sporgendosi ancora più all’indietro fino a lambire la storia più antica della musica e della poesia.

Il risultato complessivo mi appariva comunque alquanto leggero e innocuo, senza punte particolari, rispetto a quello che mi sarei aspettata pensando ai miei avvicinamenti passati alla loro musica; ad ogni modo appena arrivata proprio sulle prime battute del live mi sono resa subito conto che la storia stasera sarebbe stata un’altra.
Già  “Introducing the band” viene sparata carichissima di rock e elettrizza la distesa del numeroso pubblico in un un amen.

“What I’m trying to tell you” continua confermando la prima impressione, l’energia è subito densissima, Brett Anderson non ha certo bisogno di riscaldarsi ci piomba addosso come una palla di fuoco, annulla la distanza tra il palco e l’ultimo spettatore in fondo.
Anche “Filmstar” pulsa molto più adrenalinica che nelle registrazioni, lui salta, si dimena come un misto tra Mick Jagger e David Bowie, rotea il microfono in aria, si arrampica sui monitor, si inzuppa di sudore e acqua, posseduto dall’eros come pulsione vitale nascente del rock, quella indomabile e che abbatte sempre confini e barriere.
In “Trash” la voce e l’interpretazione ricordano ancora di più Bowie, il che aumenta lo spettacolo senza far sembrare meno personale e autentico il suo carisma.

Come le canzoni che possono essere più rock vengono meravigliosamente estremizzate in questa direzione(ancora con “Animal Nitrate”, “We are the Pigs”), vi è anche il lato opposto di questa polarizzazione, che ci carica come dinamo: i pezzi più lenti e dolci vengono resi ancora più intimi, drammatici, struggenti (“By the Se”a).

Su “She’s in fashion”, ancora bowiana, ed evidentemente molto popolare (e lui sembra sempre sapere dove il pubblico può starci più dentro) invita a cantare e numerosi non si fanno pregare.
I battiti rock salgono ancora, lo perdo di vista, vedo la folla ondeggiare, è sceso dal palco e sta cantando “The Drowners” attraversandola, non c’è filtro tra lui e i “suoi” (fans? mi sembra quasi riduttivo definirli tali ora, non c’è separazione, sono un tutt’uno ora).

Le chitarrone tornano a dominare in “Killing of a Flashboy”, la melodia della tastiera si eclissa, mentre le immagini fumettistiche che finora avevano rallegrato variamente lo sfondo vengono sostituite da una più inquietante foto di maschere bianche tra ku-klux-klan e arancia meccanica.
Altrettanto rock e con le chitarre in primissimo piano viene suonata I can’t get enough, stonesiana non solo nel titolo.

Il mondo smette di girare poi con lui solo sul palco, la luce concentrata, sullo schermo la copertina dell’album con quella che sembra un’Ofelia divenuta un’onda tra le onde,l’interpretazione drammatica con l’anima sanguinante come un Amleto canta I can’t give her what she wants, e nella disfatta degli amori totali e fragilissimi raggiunto di nuovo dagli altri strumenti viene ripreso dal vortice e a sua volta ci trascina di nuovo in esso, con “Everything will flow” e poi “So Young” e “Metal Mickey” torna a ballare come prima, di nuovo sensuale esplosivo ed inesauribile.

In ultimo annuncia un brano già  suonato nel 1999 a Roma, dove non viene spesso ma lancia l’amo a chi c’era e se lo ricorda e al nostro entusiasmo, nell’agganciarci comunque a questo ricorso e ricordo, riannodare una storia appassionante da 17 anni ed oltre a stanotte, e che decisamente sembra avere ampi motivi di continuare a lungo: “Beautiful ones”, ed è come un abbraccio fraterno.

Il bis ci dà  un’ultima doccia scozzese di un brano interiore e drammatico, “Still life”, e all’opposto il rock esplosivo di “New Generation”: per le strade della metropoli, periferie e bus notturni, ci ritroviamo con più intensità  e meno corazze, e per dirla alla Forrest gump, su questo non ho altro da aggiungere.