Cinque anni fa Will Sheff aveva dedicato l’intero settimo album degli Okkervil River ai suoi ricordi di infanzia nel New Hampshire. Per il primo brano del nono, torna ancora più indietro, alla tracheotomia a cui è stato sottoposto a meno di due anni di età . è solo il prologo, di neanche un minuto, a una carrellata di personaggi famosi accomunati proprio dall’essere passati da un simile intervento chirurgico. Accompagnato da riverberi patinati, cori gospel e una ritmica quasi Wham!, Sheff mette in scena una serie di ritratti essenziali e vividi, fino a un piano sequenza in cui Ray Davies, futuro leader dei Kinks, emerge in sedia a rotelle dall’ospedale e su una terrazza guarda il Tamigi mentre il sole tramonta. Fast-forward di dieci anni, il sintetizzatore riprende la melodia di “Waterloo Sunset” in cui Davies descrive proprio quel momento.

Sono cinque minuti perfetti che solo Will Sheff poteva scrivere. Separatosi da tutti i membri storici della band, gli Okkervil River oggi sono una band totalmente nuova e ormai più simile a un progetto solista, anche se i quattro musicisti che l’avevano già  accompagnato durante l’ultimo tour hanno lasciato la loro impronta nelle registrazioni. Purtroppo dopo il brano di apertura non c’è nulla di altrettanto riuscito: “The Dream and the Light”, dall’incedere vagamente Arcade Fire, mantiene un’aura di mistero tragico che ricorda il periodo di “The Stage Names”, ma già  al terzo pezzo, “Love Somebody”, l’album vira verso una specie di Adult Oriented Rock aggiornato al pubblico di New York City nel 2018.

C’è una notevole differenza rispetto al precedente “Away”, più introspettivo e minimalista. Qui il paragone diretto è con il tuffo nell’infanzia di “The Silver Gymnasium” e la sua ricerca di un pop orecchiabile e vintage. Ma se il mixaggio di Shawn Everett (Grizzly Bear, The War on Drugs) regala non pochi piaceri uditivi, come i bellissimi synth di “Pulled Up the Ribbon”, è la scrittura a non tenere il passo. Si sente la mancanza della prosa dai versi lunghissimi che gli Okkervil River avevano tramutato in marchio di fabbrica nella prima parte della loro carriera. Ora Will Sheff predilige invece versi brevi e secchi che non sembrano neanche chiedere di essere presi troppo sul serio.

Lo stesso Sheff ammette che negli ultimi anni scrivere è stata innanzitutto una forma di autoterapia: “Ho scritto In the Rainbow Rain per confortare me stesso, ma l’idea è che se riesco a confortare me stesso, forse può essere confortante anche per altre persone”. [1] Orfani di quegli universi per niente confortanti che gli Okkervil River avevano dipinto in passato, di quei paesaggi e dei personaggi che li popolavano, ci ritroviamo chiusi in una serra autobiografica, lussureggiante ma claustrofobica. La sensazione che rimane addosso alla fine dell’ascolto è una che raramente avevamo associato al loro nome: la noia.