Il giorno dell’uscita del suo nuovo disco, Bill Ryder-Jones ha pubblicato un messaggio su Instagram che diceva “non sono stupido, mi rendo conto che non è piacevole da ascoltare e non lo metterete su prima di uscire, ma avevo bisogno di farlo e in tutta onestà  tutto questo riguarda me, dopotutto”. Per chi non lo conosce, in queste parole ci sono già  molti elementi per capire il personaggio che abbiamo di fronte: 35 anni, inglese, l’adolescenza passata sui palchi come chitarrista dei Coral, poi l’inizio di una lunga carriera solista che stranamente (o forse no) l’ha visto sempre ai margini dei riflettori.

Che questo disco non sia piacevole da ascoltare è chiaramente una falsità , un tipico esercizio di humour come quando subito nel primo pezzo canta “Si può fare fortuna / Dicendo alla gente che sei triste”. è verissimo invece che questo disco riguardi lui, innanzitutto, ma anche la sua famiglia: il ricordo della madre nel singolo “Mither”, la lettera al padre in “John”, la foto del fratello maggiore Daniel, morto a soli 9 anni, riprodotta in copertina. Il talento principale di Bill Ryder-Jones è di parlarci di tutto questo come un amico davanti a un caminetto acceso, con quel dono per saper sempre catturare la tua attenzione.

Sono canzoni da notte inoltrata, sussurrate con la sua voce profonda, scritte mentre fuori piove, ma sempre accompagnate da una chitarra elettrica distorta, caldissima, moltiplicata in sovraincisioni che si inseguono sui canali stereo. Registrato nel suo studio personale a West Kirby, vicino a Liverpool, con l’aiuto di pochi amici, il disco è basato su un’impalcatura classica chitarra-basso-batteria, con la novità  di numerose parti di violoncello. Partendo da coordinate piuttosto chiare (Red House Painters, Low, Smog sono nomi che gli vengono spesso associati) e abbinandole a un gusto per le esplosioni di chitarra che riporta alla mente gli Arab Strap, Ryder-Jones ha costruito negli anni uno stile personale che rende difficile accomunarlo ad altri artisti.

Le sonorità  non sono distanti da quelle del precedente “West Kirby County Primary”, un piccolo capolavoro a giudizio di chi scrive, ma questo nuovo album sembra volerne limare le parti più facilmente orecchiabili. Mancano i pezzi da KO, ma c’è ancora molto di straordinario: dall’arpeggio acustico di “Recover” alla coda post-rock di “Mither”, dalla ballata romanticissima “Don’t Be Scared, I Love You” alla lettera struggente di “John”, secondo diverse interpretazioni dedicata al padre. Non ci sono molti ritornelli, ma ci sono tantissime melodie, spesso affidate alle chitarre prima che alla voce. “Mi chiedo se le persone della mia generazione, la generazione degli Oasis“, ha detto in un’intervista, “abbiano mai avuto l’occasione di confrontarsi con della musica che non fosse piena di parole”.

La conclusiva “Happy Song” è allegra solo nel titolo: “Solo un’altra canzone felice / Per persone che una volta erano felici”, canta Ryder-Jones sopra a una linea malinconica di violoncello. è l’ultimo momento di quest’ora di confessioni personali ma sempre rivolte verso un altro, l’ultimo crescendo che porta a un’esplosione di feedback per interrompersi di colpo lasciando strascichi di chitarre. Il camino si spegne lentamente ma il calore, quello rimane dentro. A volte basta poco, a volte basta una canzone.

Credit Foto: Jack Finnigan