L’anno scorso abbiamo approfittato di questa rubrica per rievocare un paio di pezzi della carriera di un gruppo che ricorderanno solo gli appassionati un po’ più anzianotti. In effetti, non si può dire che gli scozzesi Simple Minds siano diventati i particolari numi tutelari di chissà  quale band o corrente contemporanea. Anzi, la colpa maggiormente rinfacciata dai critici era proprio l’esser derivativi fin dalla prima ora, dal glam dei Roxy Music al pop da stadio degli U2. Nonostante un lustro di clamore internazionale, ad oggi il gruppo viene perlopiù menzionato come uno dei tanti nomi del rock prevedibile e pomposo di metà  anni ’80, con pochi o nulli meriti artistici.

Sono d’accordo a metà : i 30 anni di “Real Life”, unanimemente considerato il precipizio sull’abisso della loro carriera, possono fungere da occasione per una riflessione. Almeno fino al 1989 i Minds erano uno dei nomi di punta del rock internazionale. Eppure non ricordo artisti di peso che li citino come (pur timida) influenza. Anche nel plastificato revival synthpop del decennio scorso non c’è stata alcuna riabilitazione per un gruppo che pare condannato ad una damnatio memoriae dolorosa e per certi versi non giustificata. E di riabilitazioni ne abbiamo subìte anche di vergognose. Ma non la loro. Perchè?

La carriera principale dei Simple Minds è facilmente periodizzabile: i tre dischi per la Arista, in pieno post-punk (“Life In a Day”, “Real to Real Cacophony” e “Empires and Dance“), usciti tra il 1979 e il 1980; il periodo del pop-rock alla conquista degli stadi di tutto il mondo (“Sparkle in the Rain”, “Once Upon a Time“, il live “In the City of Light” e “Street Fighting Years”, tutti al primo posto nel Regno Unito), tra il 1984 e il 1989, in cui erano assurti a star; e il lasso artisticamente più fecondo, a metà  fra i precedenti, che partorì “Sons and Fascination”, “Sister Feelings Call” e il classico “New Gold Dream”, fra il 1981 e il 1982.

“Real Life”, il primo a mancare la vetta della classifica britannica dopo un bel filotto, è il disco di un gruppo che ha perso identità . In questo caso l’identità  ha anche un nome e un cognome: Michael McNeil, tastierista, fisarmonicista, compositore, e probabile collante fra ambizioni artistiche e commerciali, lasciò il gruppo dopo oltre 10 anni, e fu un trauma. Il disperato tentativo di Jim Kerr e Charlie Burchill (e del turnista Mel Gaynor, ormai colonna portante della sezione ritmica) di ridare linfa ad un suono che aveva perso il suo deus ex machina naufraga in una raccolta di citazioni di sè stessi.

“Let the Children Speak” si ispira a “Theme for Great Cities” (del 1981) e “Alive and Kicking” (del 1985). “Travelling Man” cerca di riattivare le sinapsi ai fan che avevano amato l’ampollosa formula à  la “Waterfront” (del 1984). Sarebbero plagi, se esistesse il reato di auto-plagio.

“See the Lights” e “Let There Be Love”, due singoli di discreto successo (specie in Italia), sono ballate flosce al cospetto dei loro standard. L’altro singolo promozionale “Stand By Love” è appena più movimentato, ma sommerso da una banalità  disarmante. Meglio la title track, che sfrutta al meglio le prime tecniche di registrazione digitali, e i due brevi atti di “Banging on the Door”, che almeno suonano sinceri. Anche “African Skies”, al netto del buonismo d’ordinanza, è piacevole.

Il disco, comunque, non è terribile come leggenda vuole, e scorre via senza particolare noia. Il problema è che, come sempre nella loro carriera, è tutto perfetto tranne l’ingrediente principale: il contenuto. Ma laddove la verve giovanile bastava e avanzava a mascherare quel gap, le incerte riflessioni dell’età  adulta non verranno più perdonate.

I Simple Minds avrebbero dovuto aver la compiacenza di sciogliersi dopo la dipartita di McNeil, che già  seguiva di qualche anno quella di un altro pilastro, Derek Forbes al basso. La musica degli anni ’90 aveva già  avviato la rimozione del decennio precedente, le tastiere bandite quasi del tutto, il divismo chic formattato e dimenticato in favore di camicie di flanella, capelli e barbe incolte, fiumi di machismo politicamente scorretto. E infatti, questo è l’album di una band irrimediabilmente fuori dalla sua comfort zone, che non è mai più stata in grado di sintonizzarsi sugli umori dei contemporanei.

Data di pubblicazione: 8 aprile 1991
Registrato: Bonny Wee (Olanda), Ca Va Studios (Scozia) e Townhouse Studios (Inghilterra)
Tracce: 13
Lunghezza: 52:12
Etichetta: Virgin (distribuito negli USA dalla A&M)
Produttori: Stephen Lipson

Tracklist
1. Real Life
2. See the Lights
3. Let There Be Love
4. Woman
5. Stand By Love
6. Let the Children Speak
7. African Skies
8. Ghostrider
9. Banging on the Door (Intro)
10. Banging on the Door
11. Travelling Man
12. Rivers of Ice
13. When Two Worlds Collide