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Manfredi Lamartina è tornato e con lui i “suoi” Novanta. Eppure, questa volta, le novità non mancano, a cominciare dai protagonisti del nuovo album “Punk for introverts“, un vero e proprio lavoro di squadra. Conosciuto e apprezzato divulgatore di shoegaze grazie a un blog molto seguito, il musicista siciliano e la sua band realizzano un disco intenso ed emozionante, ricco di fascino e riverberi: scrigno di suggestioni non solo per chi cerca nuovi paladini del genere. Le curiosità in merito a questo lavoro erano tante e Manfredi ci ha risposto in modo esauriente e dettagliato.

(L’intervista, nella sua forma originale, è contenuta su Rockerilla 518, ottobre 2023)

Sbaglio o mai come in questo caso possiamo considerare i Novanta come una band vera e propria e non più, semplicemente, il progetto di Manfredi Lamartina?
Il mio obiettivo è sempre stato trasformare questo progetto, nato nel modo più stereotipato possibile (ovvero chitarra, computer, cameretta, sospironi), in una band. La solitudine in musica può ispirare ma può anche deprimere. Con “Punk for introverts” è la prima volta che Novanta diventa un vero e proprio gruppo, di cui fanno parte un sacco di persone in gamba.

Sarò banale, ma, prima di addentrarci nel sound del nuovo disco, lasciami partire proprio dal primo biglietto da visita: il titolo, bellissimo. Da dove è arrivato?
Il titolo viene dallo slogan di un sito che gestisco da qualche anno, Shoegaze Blog. Cerco di raccontare lo shoegaze come se fosse un punk per gente introversa: mi sembra una definizione azzeccata, considerando il fatto che si tratta di una musica che può essere assordante anche quando è cantata sottovoce. Ecco, “Punk for introverts” è un titolo perfetto per questo album: qui non si poga, si sogna.

Parlare di shoegaze con te è come approcciarsi a un maestro assoluto in questo campo, visto proprio il tuo seguitissimo blog dedicato al genere che hai citato, però credo che quella parola possa sposarsi bene al vostro album, senza paura di creare etichette. Anche perché per me shoegaze è quasi più uno stato d’animo che un genere musicale, che ne pensi?
Lo shoegaze è un suono che gioca di sottintesi e di malinconie: non c’è mai nulla di esplicito, nemmeno nella stessa parola shoegaze, che non fornisce appigli a chi non ne conosce la storia segreta. È insomma una musica per persone che tengono magari lo sguardo basso ma il cuore altissimo. Paradossalmente, è anche l’etichetta con meno vincoli che esista: nello shoegaze c’è spazio sia per i Nothing che per Trentemøller, due progetti diversissimi, quasi antitetici, ma che respirano la stessa aria. Quindi sì, lo shoegaze è uno stato della mente, non un disciplinare. E ancora sì, anche noi facciamo shoegaze, anzi, ceiling-gazing songs. C’è questa tendenza, specie tra le band più giovani, di rifiutare le classiche categorie musicali, ma è più una posa che una realtà: basta aprire una qualsiasi piattaforma streaming per rendersi conto che oggi è tutto ancora più catalogato di prima. Anche i più post moderni di tutti, i 100 Gecs, che sembrano la sonorizzazione del multiverso, hanno la loro bella categoria appiccica a sopra: hyperpop. E peraltro in questa cosa non ci vedo nulla di male, se serve a sgombrare il campo dagli equivoci e non preclude alle band di evolversi.

Tanti ospiti, una gestazione che ho letto essere stata lunga. Come è nato e come si è sviluppato “Punk for introverts”?
Durante quei giorni immobili del 2020 ci siamo rimpallati canzoni da remoto, ma senza guardarsi negli occhi è difficile andare avanti. I brani di “Punk for introverts” sono nati in quel periodo, ma non lo definirei un lockdown album. Semmai il suo opposto, quasi un disco di rinascita, perché poi nel corso del tempo ogni traccia ha cambiato pelle e si è aperta: ho lavorato ai pezzi per due anni con Agostino Financo Burgio alla batteria, Antonia Chiara Ciancaglini al basso, Giuseppe Musto alla tastiera, Francesco Lucà alla produzione, più gli altri ospiti, ovvero etti/etta, The Sensitive Club, Gioia Podestà (Maquillage, You, Nothing), Francesca Saracino (Never Know Yo-Yo). Scusa l’elenco, ma non è una semplice sequenza di nomi. Se c’è una magia in questo album viene da loro.

Questa volta non ti sei risparmiato. Il disco è ricco, pulsante e vario: dolce tanto quanto abrasivo, rumoroso ma anche accogliente. Canzoni che cambiano faccia e mood al loro interno. Ascoltandolo la prima volta ho avuto l’immagine di una magnifica selezione di scatole musicali cinesi…che ne pensi?
Volevamo creare qualcosa che suscitasse empatia all’ascolto e che fosse in un certo senso avvolgente. Non amiamo molto la linearità, ma nemmeno abbiamo una tecnica tale da poterci permettere arrangiamenti pirotecnici. Diciamo che l’obiettivo è di creare colonne sonore mentali, ogni brano ha una sorta di trama: il prologo, l’intreccio, l’imprevisto, il gran finale. Non sono sicuro che ci sia anche il vissero felici e contenti.

Una delle melodie più malinconiche e toccanti del disco spetta alla magia di “Forever”. Sai che però, più la sento, mi sembra sempre più calda, luminosa e solare, come se quel taglio notturno che mi sembrava avere all’inizio fosse solo una copertura…
Inizialmente aveva una struttura synth pop, le chitarre erano quasi assenti, ci eravamo ispirati a “Time to pretend” degli Mgmt. Poi però c’è stato il coinvolgimento di Gioia Podestà, che ha dato un feeling diverso al brano con la sua vocalità ultraterrena, e dunque abbiamo cambiato un po’ le carte in tavola. È soprattutto il ritornello, che rappresenta una frattura armonica importante rispetto alla strofa, a portare luce, calore, coriandoli. Pensavo inizialmente che fosse un brano da ascoltare nelle fredde notti di gennaio, ma ho notato che si adatta perfettamente anche agli azzurrissimi pomeriggi di aprile.

Adoro “Magic Youth”. Ricordo la copertina del singolo, con quella porta da calcio praticamente su un dirupo, in Islanda. Io non credo affatto che quel riferimento visivo all’Islanda sia casuale. Sento nella canzone quella creatività, stile avvolgente, melodico e sognante, che spesso molte produzioni del Nord Europa hanno…
La copertina del singolo, che è di Federica Palladini, ci era sembrata perfetta: un campo da calcio così onirico, direi magico, che si affaccia sul mare senza alcun tipo di protezione, non poteva che essere in Islanda. È un paese che da sempre rappresenta un po’ il punto d’arrivo di ogni cosa dei Novanta. Un vecchio album, “Hello we’re not enemies”, era di fatto ispirato all’Islanda. Mi sento molto vicino a una certa idea di musica nord europea, non solo islandese: penso al già citato Trentemøller, ai Múm, ai Misty Coast. Potrei continuare all’infinito.

“Rain-oriented people” la vedo come il momento del passaggio tra una prima parte quasi più dream-pop e la seconda in cui si fanno vivi anche momenti più sonici. Che ne pensi?
“Rain-oriented people” è il filo rosso che unisce quasi tutti gli album targati Novanta, nel senso che riprende quella che era l’idea originaria del progetto: una musica strumentale lenta, cupa e sognante. Nello specifico di “Punk for introverts”, il suo scopo è esattamente quello: creare un prima e un dopo. Una prima parte dream pop, una seconda parte shoegaze, più densa, piena, arrembante. “Rain-oriented” è il cuore oscuro del disco, il centro esatto attorno al quale gravita tutto il resto. Un pezzo identitario per quelle persone introverse che, come me, si sentono sincronizzate col mondo solo in autunno.

Beh, ma che giro di chitarra mi hai tirato fuori per “Survive the sea”? Prima ci spettini e poi ecco che subentra quasi un movimento alla Fleetwood Mac…questa canzone è veramente un gioco d’incastro magnifico. Come è nata?
Tendenzialmente nei Novanta il ruolo della chitarra ritmica è affidato al basso e alle tastiere: questo ci consente di creare dei tappeti strumentali un po’ inusuali, o almeno l’intenzione è quella. Con “Survive the sea” invece abbiamo ragionato all’opposto: è una canzone dal taglio apparentemente classico, con grandi distorsioni, accordi pieni di chitarra e un riff protagonista. Allo stesso tempo, però, abbiamo preferito dare un tocco “novantesco” nella strofa, eliminando le chitarre e dando spazio alle tastiere, in una sorta di vertigine synth pop sulla quale poi Francesca Saracino ha fatto il resto. È un brano dinamico, di vuoti e di pieni.

Il dream-pop fortemente riverberato di “Volta” è poesia in musica, senza confini e onirica. Ma davvero la prima versione della canzone era intrisa di claustrofobia e cupezza?
È il pezzo che più di tutti racconta la lunga lavorazione dell’album. Una prima versione risale più o meno ai primi mesi di lockdown, nel 2020, ed era un gran casino di distorsioni su distorsioni, appoggiate su un ritmo scheletrico in 5/4. Probabilmente la musica ha risentito del clima difficile di quei mesi: quotidianità blindata, arrangiamento claustrofobico. L’anno seguente ho contattato i misteriosissimi shoegazer italo-canadesi etti/etta per chiedere loro se fossero interessati a collaborare a questo brano. Loro lo hanno ribaltato grazie a una linea vocale bellissima e a un synth cinematografico: i suoni sono diventati sconfinati e tutto ha trovato un suo perché.

Il cambio di ritmo di “Fuoco / fiamme”…parliamone…

Lo scorso anno, prima di iniziare le registrazioni, abbiamo notato che, senza averlo pianificato, molte canzoni avevano un piglio ritmico piuttosto pronunciato, pur avendo una malinconia di fondo ben evidente. E in effetti, “Punk for introverts” può essere raccontato come una malinconia ballabile. La parte finale di “Fuoco / fiamme” è il culmine di questo discorso: ci piace divertirci suonando musiche tristi, e questa è la musica triste più euforica e ballabile che ci sia.

Ora l’idea, immagino, sia quella di portare il disco in giro. Come la vedi?
Io sono curiosissimo di sentire come suonano questi brani live. In questi mesi abbiamo fatto qualche live di riscaldamento a Milano, il nostro è un set molto alto di volumi. Abbiamo un suono piuttosto violento, ma anche d’atmosfera. Stiamo preparando delle date per il 2024: non vediamo l’ora.

Grazie ancora Manfredi per la tua gentilezza. Ultima domanda, inevitabilmente, per un tuo commento su una delle uscite più attese di questi ultimi mesi, ovvero quella dei Slowdive, paladini, negli anni ’90 dello shoegaze e gruppo cardine del genere insieme a Ride e My Bloody Valentine. L’ultimo disco è piaciuto a moltissimi, ma i puristi che si aspettavano la loro consueta epicità sonica sono rimasti un po’ spiazzati. Tu come lo giudichi?
È un disco molto diverso dai precedenti e capisco anche il perché. Gli Slowdive hanno ampiamente fatto uso di chitarre stratificate ed esplosioni shoegaze assortite, ma è una formula che usa ormai chiunque, noi inclusi, quindi ci sta che vogliano cambiare un po’. Se il suono è un po’ cambiato, la loro malinconia è rimasta la stessa, basta ascoltare “Skin in the game”, che è una canzone meravigliosa.