Avevo deciso di recensire il terzo album degli Inhaler, “Open Wide”, perchè credevo in un ulteriore salto di qualità dopo l’apprezzabile e ben prodotto “Cuts and Bruises”, ma mi sono ricreduto. O meglio, non hanno prodotto ciò che mi aspettavo e che forse volevo. Il terzo album del gruppo irlandese con casa a Dublino, segna l’uscita dalla comfort zone musicale e la sperimentazione di nuovi suoni e approcci molto più pop rispetto alle due precedenti produzioni. Almeno a detta degli stessi interpreti e sicuramente non gli si può dare torto.

“Eddie in the darkness”, open track, sembra dare l’idea di una continuità di suoni, ma poi si cade sempre più verso pezzi pop, radiofonici, piatti e ridondanti. Registrato a Londra presso i RAK Studios, dopo poco più di un anno e qualche mese dall’uscita di “Cuts and Bruises” e a quattro anni dall’imprevedibile trionfo di “It Won’t Always Be Like This”, questo nuovo disco vede come direttore d’orchestra Kid Harpoon, produttore di successo mondiale che ha collaborato con Florence + The Machine, Kings of Leon, ma anche con Miley Cyrus ed Harry Styles, declinando il suo lavoro con un’impronta sempre più pop.
Elijah Hewson, frontman della band, ha dichiarato in un’intervista a Virgin Radio ed alle RTE, che questo è un album in cui hanno voluto registrare un nuovo repertorio musicale ed uscire da una comfort zone che per loro, principalmente per loro, annoverava Joy Division e Stone Roses. Nomi dall’elevata caratura soprattutto per l’influenza che hanno avuto su altri gruppi e sulla musica in generale. Il sound pop-rock qui sparisce del tutto e si aprono suoni elettronici contemporanei e già ascoltati. “Even though” respira un po’ di più, ma poi ci ritroviamo sempre nel territorio radiofonico e mainstream in cui ci hanno trasportato.
“Your House” strizza l’occhio all’intro di “Uprising” dei Muse, distaccandosene completamente, Deo gratias, nel ritornello tra cori e un’apertura melodica di stampo U2, non a caso Elijah è il figlio di Bono e questo è percepibile costantemente anche nella voce. Sia ben chiaro, non che sia una colpa o un fardello, ma le similitudini sono orecchiabile ai più. “A question of you”, uscito come singolo, è forse il pezzo più strutturato del disco che sposta la lancetta verso la categoria pop-rock, ma senza raggiungerla. “Open wide”, title track, è l’unica vera traccia sperimentale del disco in cui Robert Keating, bassista del gruppo e dj, ha dato un tocco clubbing al pezzo, almeno nella prima parte, e che non mi stupirei di ascoltarlo remixato con un pitch più alto ed un bpm più veloce.
Il gruppo in questi anni ha aperto i concerti dei Pearl Jam, Sam Fender ed Arctic Monkeys, sono cresciuti in popolarità ed età e sicuramente questo terzo album l’hanno voluto suonare per come meglio lo sentivano e percepivano. Tra i tre è sicuramente quello più diverso, ma non per forza il meno riuscito. Sicuramente più debole degli altri due.
Che non siano mai stati un band indie questo era chiaro, l’assonanza vocale e le sonorità comunque riportavano ad un universo musicale U2diano e dintorni, ma mi aspettavo più chitarre e più rock da questo disco e con l’uscita di scena del precedente produttore, Antony Genn, che ha suonato in tour con gli Elastica e collaborato tra gli altri con Josh Homme, Ian Brown e Brian Eno, tutto svanisce.