
Esiste un periodo nella storia della musica britannica che si muove tra le crepe della memoria collettiva, dimenticato dai più ma fondamentale per lo sviluppo di ciò che sarebbe venuto dopo. Sto parlando della breve ma intensa epopea del pub rock: un suono proletario, tradizionale ma rivoluzionario, che gronda sudore e birra, impregnato dell’odore stantio di locali fumosi e lontano, anzi lontanissimo, dagli eccessi dorati delle star del rock mainstream. “Time! Gentlemen! Pub Rock Rhythm ‘N Grooves – Classic Cuts & Rarities 1974-1982”, il nuovo cofanetto della Cherry Red Records, riporta alla luce settantadue tracce che testimoniano l’epoca di transizione splendidamente rappresentata dal pub rock, un ponte ideale tra il classicismo del rhythm & blues e la furia iconoclasta del punk.
Il pub rock fu un fenomeno visceralmente britannico e, al tempo stesso, il più “americano” tra i generi che il Regno Unito abbia mai partorito. Affondava le sue radici nel rock ‘n’ roll primordiale, nel blues, nel garage, nell’R&B e, a volte, nel funk e nel folk. Le band pub rock, figlie “bastarde” dei conterranei Rolling Stones, si ispiravano più a Chuck Berry e Bo Diddley che ai virtuosismi barocchi del progressive rock o alle derive glamour del David Bowie più teatrale. Canzoni dirette, registrazioni essenziali, pochi orpelli. Una reazione naturale agli eccessi del rock da stadio e alle produzioni multimilionarie che avevano trasformato la musica in un affare per pochi eletti.
Il pub rock fu essenzialmente uno strumento di resistenza al mainstream degli anni ’70. In studio di registrazione l’obiettivo non era essere precisi e perfetti, ma catturare al meglio l’energia grezza del suono live, crudo e autentico. Dal punto di vista economico, le differenze fra i due “mondi” erano evidenti. La seguente informazione è presente anche sull’articolo di Wikipedia dedicato al genere: un album rock tradizionale doveva vendere almeno 20.000 copie per ripagarsi le spese, mentre un disco nella sfera del cosiddetto pub rock, realizzato con pochi mezzi e senza particolari pretese, ne richiedeva appena 2.000 per rientrare nei costi. In questo dato vi sono i prodromi della filosofia DIY, cuore di tutta la musica alternativa, ma anche le basi per il successivo boom delle etichette indipendenti.
Più che un semplice genere musicale, quindi, il pub rock fu una scena viva e pulsante che si sviluppò in primis lungo tutta una rete di locali che attraversava Londra e alcune aree circoscritte del Regno Unito. Un circuito di pub e club underground che, tra gli anni ‘70 e i primi ’80, divenne una piattaforma di lancio e sostentamento per centinaia di band che non aspiravano ad altro che divertirsi e tirare a campare.
Il microcosmo del pub rock collassò nel giro di pochissimi anni. Se da una parte fu una reazione necessaria e audace al rock più pomposo e ai suoi costi spropositati, dall’altra non possedeva la radicalità necessaria per infiammare i cuori dei giovani della metà degli anni ‘70. Il pubblico inglese, attratto da emozioni più forti, finì per lasciarsi conquistare dall’innovazione del punk, movimento che condivideva con il pub rock il gusto per il fai da te e l’approccio diretto ma con una rabbia, una estetica, una profondità e una carica sovversiva che i più tradizionalisti pub rockers non avrebbero mai potuto eguagliare. Difatti finirono per farsi fagocitare da Johnny Rotten e colleghi.
Fra i superstiti che riuscirono superare la prova del tempo ci furono grandi artisti come Dr. Feelgood, Ian Dury, Elvis Costello e i primi Dire Straits. Gli altri divennero poco rilevanti o svanirono totalmente, vittime di una rivoluzione culturale che li considerava superati. Eppure, il loro spirito ha continuato e continua a vivere nel codice genetico della musica indipendente.
Il cofanetto della Cherry Red Records è un documento sonoro imprescindibile per chiunque voglia scoprire il pub rock nei suoi molteplici aspetti. Non solo raccoglie alcuni piccoli classici del genere, ma riporta alla luce rarità rimaste sepolte per decenni; brani mai digitalizzati e riversati in CD che rischiavano di finire dimenticati per sempre tra polverose pile di vinili nei negozi di seconda mano. Per darvi un “curioso” assaggio di questa collezione, ho deciso di lasciar da parte i nomi noti per presentarvi dieci deep cuts particolarmente significative o misteriose. L’invito, ovviamente, è quello di recuperarvi l’intero box set!
ROOGALATOR
Cincinnati Fatback (1977)
“Cincinnati Fatback” dei Roogalator incarna alla perfezione l’abilità tecnica della band guidata dal talentuoso chitarrista e cantante statunitense Danny Adler. Con una durata di quasi sei minuti, il pezzo si muove con naturalezza tra rock, country, blues e funk, creando un groove davvero irresistibile.
NO DICE
Why Sugar (1977)
Un singolo travolgente, un sound esplosivo ispirato a Rolling Stones e Faces, eppure nessuna gloria: il destino della mancata hit “Why Sugar” e dei No Dice fu l’oblio. Nonostante due album pubblicati dalla EMI e un’intensa attività live, la band non riuscì mai a sfondare. Oggi sono praticamente svaniti dalla faccia della Terra, tanto che persino Spotify sembra ignorarne l’esistenza. Ma “Why Sugar” resta una gemma perduta che meriterebbe di essere riscoperta.
RED BEANS AND RICE
That Driving Beat (1980)
C’è poco da discutere: “That Driving Beat” dei Red Beans And Rice è un brano dal tiro micidiale. Un’esplosione di soul e blues incandescente, sorretto da una sezione fiati travolgente e da una graffiante armonica che non lesina sugli assoli. Cover di Willie Mitchell, già retrò al momento della sua uscita, si colloca perfettamente nel revival mod post-Quadrophenia e anticipa, per spirito e sound, la riscoperta soul che culminerà nei Blues Brothers. Il riff principale strizza l’occhio a “(I Can’t Get No) Satisfaction” dei Rolling Stones, aggiungendo ulteriore carica a un brano che resta tra le perle meno note ma più calde del periodo pub rock.
THE CHROMATICS
I’m A Rep (1982)
“I’m A Rep” dei Chromatics è un treno impazzito che corre lungo i binari del rock and roll. Ritmata ed estremamente orecchiabile, la canzone si distingue per un sound sintetico che ne amplifica il fascino, incastonandola perfettamente nell’epoca new wave/post-punk in cui è uscita (nonostante l’evidente matrice vintage del rockabilly e degli anni ’50 più in generale).
STRAIGHT EIGHT
Will You Love Me (1980)
Pop rock raffinato ed estremamente radiofonico con un sound che sfiora l’AOR, lontano quindi dalle sonorità più ruvide del punk o del garage rock. Il brano dei dimenticatissimi Straight Eight, tratto dal loro secondo album intitolato “Shuffle ‘n’ Cut”, si distingue per un’atmosfera quasi drammatica, un’energia controllata, un cantato carico di tensione emotiva e un grande assolo di chitarra che aggiunge profondità al pezzo. Il risultato è un sound potente ma accessibile – un lato dell’anima più mainstream del pub rock di fine anni ’70.
DEKE LEONARD
Get Off The Line (1981)
Ex chitarrista dei Man, Deke Leonard intraprese una carriera solista alla fine degli anni ’70, pubblicando nel 1981 “Before Your Very Eyes”, album registrato in gran parte nei dodici mesi precedenti l’uscita. “Get Off The Line” è un brano che esplora il lato più ruvido e aggressivo del soul, con un’anima fieramente rock e una chitarra elettrica sempre in primo piano. L’arrangiamento, arricchito da fiati e cori, enfatizza un ritornello potente e memorabile.
MICK FARREN
I Want A Drink (1978)
“I Want A Drink” di Mick Farren è un concentrato di energia punk intriso di ironia che rielabora con frenesia e spirito irriverente le radici più viscerali del rock and roll. Estratto dall’album “Vampires Stole My Lunch Money”, il brano si avvale della chitarra tagliente e inconfondibile di Wilko Johnson, storico membro dei Dr. Feelgood e icona non solo del pub rock, ma del rock britannico in generale.
ROLL-UPS
Blackmail (1979)
Nella deliziosa “Blackmail” dei Roll-Ups il pop soul di matrice Motown si fonde con l’energia e l’immediatezza del punk melodico di fine anni ’70. La canzone, una potenziale hit power pop passata inosservata all’epoca dell’uscita, si distingue per il suo sound estremamente incisivo e accattivante, con una melodia coinvolgente e un ritmo incalzante.
THE RECORDS
Insomnia (1979)
Brano firmato dai Records, band nata nel 1978 dall’unione di due ex membri dei Kursaal Flyers (il batterista Will Birch e il chitarrista John Wicks). Il gruppo diceva di ispirarsi al pop britannico degli anni ’60, in particolare a Beatles e Kinks, ma in realtà non si allontanava troppo dal rock più melodico e d’impatto dei ’70. “Insomnia” è un pezzo bello energico, con chitarre dal sound tagliente e un’impronta leggermente punk. Pubblicato nell’album “Shades In Bed” del 1979, il brano ci mostra il lato più melodico e radiofonico del pub rock, con una grinta e un’immediatezza che lo rendono irresistibile.
THE WILKO JOHNSON AND LEW LEWIS BAND
Caravan Man (1983)
Un brano registrato da due pezzi da novanta della musica inglese che, me ne rendo ben conto, spicca nettamente in una classifica dominata da artisti dimenticati o poco noti. Però non potevo escludere da questa piccola Top 10 “Caravan Man”, perfetto esempio di come il pub rock, pur essendo stato un genere radicato in un’estetica vintage, potesse a volte rivelarsi innovativo e sorprendente. Registrato ai Pathway Studios di Londra, questo pezzo unisce il blues e il reggae con le atmosfere rarefatte e avvolgenti della dub. La chitarra nervosa di Wilko Johnson e l’armonica ricca di pathos di Lew Lewis danno vita a un suono denso, vibrante, che incarna alla perfezione lo spirito ribelle e contaminato della musica di quegli anni.