[ratings]

Michel Gondry continua a tenere fede al suo assai originale proposito di fare dell’inconscio l’oggetto prediletto della sua filmografia, giunta finalmente alla ribalta del grande pubblico dopo il successo di The Eternal Sunshine of a Spotless Mind. Tra i pochi ad essere riuscito nella difficile impresa di far convivere la propria anima autoriale negli abiti, più o meno definiti ed eccentrici, del melò, Gondry può dire di essere arrivato a trovare la formula vincente, la chiave di volta per fare in modo che il suo cinema si esprima al massimo delle sue potenzialità .
Anche in una circostanza come questa, in cui gli è stato ridimensionato il cast, al ritorno nella realtà  europea dopo l’esperienza americana, è riuscito a sfruttare la maggiore libertà  senza abusarne, trovando ciò che si può definire un ottimo equilibrio. Come a voler sancire definitivamente il suo status di autore, lascia lungo il suo ultimo film molte orme del suo stile, oltre a ritornare ai suoi consueti temi e alle consueto rapporto con le storie. E’ ormai chiaro che a Gondry piacciono i personaggi maschili sensibili e sentimentalmente tormentati, e i personaggi femminili originali, affascinanti nel loro anticonformismo, insofferenti verso i legami duraturi; ed è altrettanto chiaro come la loro relazione, rappresentata su un piano più mentale che reale, sia il perno su cui ruota tutta la sua attività  di regista e sceneggiatore.
Ma come riesce Gondry a rendere questo piano mentale, onirico, sui cui è giocato quasi tutto L’arte del sogno? Forse, riuscendo a scegliere accuratamente quelli che sono gli elementi dello “spostamento”, cioè di quel processo subcosciente tramite il quale le cose e le persone vengono caricati di un significato particolare. Tutti i dettagli e i prodotti dell’attività  onirica del protagonista sono piegati ai suoi voleri poetici. Il pony di pezza che campeggia sul manifesto, sui cui Stephane e l’amata si ritrovano a cavalcare è una tipica esca drammatica, al pari delle sue strambe invenzioni: due caschi per comunicare telepaticamente, una strana macchina del tempo. Nel suo cinema l’amore (quasi sempre non corrisposto), i momenti di pura e semplice malinconia, resa con mezzi pure strettamente “commerciali”, non mancano e hanno una rilevanza notevole.
Non è solo questo, però.
Se si eccettuano delle sequenze marcatamente visionarie, che tengono forse conto dei deliri lisergici di Roger Corman e del suo Il serpente di fuoco (1967), si può ben dire che anche Gondry ceda all’ambizione surrealista di confondere la realtà  con il sogno, al punto che verso la fine è ormai impossibile per lo spettatore riuscire a distinguere tra i due piani con sufficiente chiarezza. Quello che vediamo sono le reali conseguenze delle angosce, dei tormenti, dell’amore e delle speranze del timido Stephane, oppure non è altro che il prodotto che egli prepara nel suo studio televisivo/cucina in cui produce i suoi sogni? L’uso della luce, di colori brillanti e personaggi tutti a modo loro un po’ strani fa in modo che le differenze tra le due dimensioni si attenuino fino a sparire, fino a fare di tutto il film una specie di ininterrotto sogno ad occhi aperti.
Gondry applica uno repertorio di ripresa da Nouvelle Vague: macchina mobile, largo uso di inquadrature decentrate e di punti di vista apparentemente casuali, jump cuts e scavalcamenti di campo.
Si sta rivelando senza dubbio il più pericoloso dei geni: un genio astuto, e molto consapevole del suo talento. Ad ogni modo, L’arte del sogno è un film strepitoso.
Assolutamente da non perdere.
Locandina
Official Site
 
Con Gael Garcia Bernal, Charlotte Gainsbourg, Alain Chabat, Miou-Miou, Pierre Vaneck, Emma de Caunes
Sceneggiatura di Michel Gondry
Fotografia di Jean-Luis Bonpoint
Montaggio di Juliette Welfling
Scenografia di Ann Chackraverty, Pierre Pell, Stephan Rosenbaum
Prodotto Georges Bermann e Frederic Junqua
Distribuito da Mikado