Chiudere gli occhi. Lasciarsi avvolgere dal suono genuino, dal calore della voce e dalla leggerezza dei cori che riempiono questi 55 minuti.
La musica dei Fleet Foxes ha un non so che di terapeutico. Si, forse la consiglierei a qualsiasi psicoqualcosa come rimedio naturale allo stress da città , a ansie da relazione, da prestazione e fate voi per quale altro scopo.

Ascoltare i Fleet Foxes equivale a catapultarsi nel bel mezzo di una foresta, isolarsi dalla società  moderna, dal consumismo, dalle televisioni, pubblicità  e tutte queste cose talmente moderne che finisco per farti odiare tutto ciò che c’è di bello nella modernità  (sempre ce ne sia).
Modernità , tuttavia, è una parola che pare non esista nel vocabolario dei sei di Seattle. Ed è per questo che piacciono. La loro genuità  ti fa assaporare decenni lontani, passati e irripetibili. Non solo quelli degli anni sessanta. Ascoltando i Fleet Foxes torni ad assaporare la bellezza di tempi lontanissimi, del lavorare la terra, dell’allevare bestie, di ballare per le strade, di vestirti di quattro stracci fatti in casa. Si, la loro musica è questo: è la genuità . Niente virtuosismi, niente di altamente tecnologico. Solo i vecchi strumenti: chitarra acustica, batteria, tastiera, percussioni e voci e cori che rivestono il tutto.

Tre anni fa le ‘volpi’ di Seattle avevano fatto brillare gli occhi ai nostalgici freakettoni che negli anni sessanta se la spassavano con i vari Crosby&Stills&Nash&Young e avevano aperto la strada ad una nuova ondata di newfolk (di li a poco sarebbero sbucati fuori come funghi i vari Mumford & Sons, Bon Iver, Local Natives“…).

In “Helplessness Blues”, successore dell’omonimo Fleet Foxes, tuttavia le novità  sonore sono poche, le più importanti delle quali l’ingresso in famiglia di Morgan Henderson (polistrumentista, ex Blood Brothers e Past Lives) che contribuisce a rendere gli arrangiamenti più sofisticati (gli 8 minuti di “The Shrine / An Argument”, la perla del disco, ne sono la prova) e la maggiore “profondità ” compositiva dei testi del songwriter Pecknold. Testi più personali ed esistenzialisti (what’s my name?/what’s my station?/oh, just tell me what i should do”… in “Montezuma” o Why in the night sky are the lights on?/Why is the earth moving round the sun?Why is life made only for to end? In “Blue Spotted Tail”) rispetto a quelli fiabeschi che caratterizzavano l’album di debutto (che anche qui tuttavia non mancano, vedi “Sim Sala Bim”).

I Fleet Foxes riprendono da dove avevano lasciato, da quel folk barocco ricoperto di canti e melodie ancestrali che avevano coronato il loro successo. I detrattori saranno pronti ad accusare le ‘volpi’ di scarso coraggio per la sperimentazione e di scarsa propensione all’innovazione. A me viene solo da dire che il combo di Seattle è qualcosa di sprecato per questi tempi e che dovremmo ritenerci fortunati di aver potuto vivere per 55 minuti in una dimensione extratemporale.

p.s.Ho scritto questa recensione con il disco Crosby&Nash di sottofondo, perchè infondo i grandi restano i GRANDI!

Credit Foto: Sean Pecknold