Io non volevo, giuro. Non volevo offenderla, quella ragazza precisina, con polo bianca Ralph Lauren, jeans stretto stretto che se ti chini troppo si strappa sul culo, Kawasaki bianche immacolate (sì, la Kawasaki non produce solo moto, a quanto pare). Stava fotocopiando un manuale di non so quale Diritto proprio alla fotocopiatrice accanto alla mia. Giuro che non volevo offenderla o accrescere lo stato di alienazione e nervosismo di cui era preda. Prima di uscire da casa, ho pensato: “carica tutto l’album dei CVRCHES sull’iPod e ascoltalo mentre ti spaccherai le palle a fotocopiare due libri e ti verrà  pure il mal di schiena, perchè hai la postura sbagliata sempre, figurati quando devi stare lì a schiacciare bene il libro sulla superficie di vetro e poi ti devi lanciare in fretta per rovesciare il foglio e metterlo in ordine, altrimenti farlo dopo ti farà  perdere un sacco di tempo”. Sì, la voce della mia coscienza è molto petulante e si dilunga parecchio, a volte credo che sia proprio James Joyce ad abitare dentro la mia calotta cranica. Un James Joyce pedante e pedestre.

Fino ad oggi, i CHVRCHES sono stati solo una promessa. L’11 maggio 2012 avevano rilasciato in free download “Lies”, synthpop cupo, dall’incedere quasi marziale, con una batteria dosata al punto giusto, una pausa per prendere fiato e poi di nuovo giù a pestare. Il pezzo riscuote consensi e fa gridare al miracolo. Io non vedevo l’ora di ascoltare qualcosa di nuovo e avevo battuto la rete in lungo e in largo pur di trovare anche solo una demo buttata via, un bootleg, qualcosa. Il 17 settembre 2012 era arrivato “The Mother We Share”: il ritornello è un’arma di distruzione di massa, il synth tirato a lucido e ci si sposta in lande più luminose rispetto all’ombrosa Lies. L’attesa cresce: sulle spalle degli scozzesi CHVRCHES pesano le aspettative di tutto il Regno Unito. Il 6 febbraio 2013 era toccato a “Recover”: Lauren Mayberry sembra una Cindy Lauper degli anni zero, mentre drum machine e synth danno sostanza a un pezzo che sembra rimbalzare su un ritmo non sfrenato ma comunque inarrestabile.

E adesso arriviamo ai giorni nostri, alle fotocopie, alle signorine che sbuffano mentre io mi sollazzo con “The Bones of What You Believe”, il debutto tanto atteso del trio scozzese. I tre successi precedentemente elencati ci sono e si confermano, a distanza di un anno, freschi e perfetti. E poi ci sono i pezzi nuovi. Io, con tutte quelle aspettative da parte di stampa specializzata, blog, fanzine, venditori ambulanti di fish&chips, me la sarei fatta addosso, sarei scappato il più lontano possibile dal Regno Unito e mi sarei rifatto una vita cambiando identità . Ma per fortuna io non so suonare nessuno strumento (evito di raccontare qui la mia parentesi estiva con un ukulele, pace all’anima sua) e i tre CHVURCHES, invece, hanno coraggio e talento. Parlano le canzoni. Non arrivi faccia a faccia con la tradizione, in questo caso certo synthpop degli anni ’80, se non hai coraggio e talento. Si permettono di guardare dritto negli occhi mostri sacri del calibro dei Depeche Mode (di cui non a caso hanno aperto alcune date del Delta Machine Tour, compresa la tappa di Milano), Prince, Cindy Lauper, Robyn, Daft Punk, The Knife. Basta, la smetto con gli elenchi, chè non sono mica Borges. Le canzoni, parlano quelle. Tutte potenziali singoli: tutto è dove dovrebbe essere, non un synth fuori posto, drum inserita con precisione in un tessuto sonoro ricco, scintillante, in cui si inseriscono con discrezione anche chitarra e basso. Gun è un pezzo trascinante come non se ne sentivano da anni, con il ritornello che spezza la tensione accumulata e scioglie in un lampo di luce la rabbia che Lauren Mayberry canta con quella voce che mi aveva fatto innamorare già  ai tempi di “Lies”, dimostrando di reggere anche quando si muove in equilibrio sul silenzio senza la rete di sicurezza dei synth, abbandonandosi ad acuti e sussurri. Non resisto, inizio a tenere il tempo battendo il piede, sotto lo sguardo indispettito della ragazza in polo bianca, già  messa a dura prova dal pesante e poco maneggevole tomo di Diritto. L’attacco di “Science/Vision” mi fa trasalire: sembra un pezzo dei Daft Punk rifatto da Kavinsky. Accenno uno sgraziato movimento d’anca. La ragazza di fianco a me mi lancia sguardi di disapprovazione. L’atmosfera danzereccia del pezzo lascia presto spazio a un ritmo più cupo e ossessivo, sottolineato dall’alternarsi della voce angosciata della mia Lauren a quella di Iain Cook.

Anche nei momenti più intimisti, come nel caso di “You Caught the Light”, i CHVRCHES non sbagliano un colpo: Lauren Mayberry lascia spazio a Iain, che dimostra di sapersela cavare egregiamente, in un pezzo dove il ritmo rallenta e synth, citarra, basso e drum costruiscono una vera e propria “visione sonora”, una canzone che sembra suonare dall’alba del giorno successivo alla fine del mondo. Al ritmo di “Strong Hand” è difficile resistere: di nuovo la costruzione perfetta, con un ritornello così trascinante che ricomincio a muovere su e giù la testa, e i piedi non riescono a stare fermi. La ragazza armeggia con il pesante tomo, la vedo con la coda dell’occhio, il nervosismo è al livello di guardia. Il Diritto crolla a terra, provocando un tonfo che posso solo immaginare, per via delle cuffie. Mi lancia un’ultima occhiataccia e va via stizzita.

I CHVRCHES hanno dimostrato di avere talento e una cura artigianale nel costruire canzoni che sono macchine perfette, dove nulla è fuori posto e tutto funziona a meraviglia. Io posso tornare a casa felice, con un po’ di mal di schiena, ma felice.
Solo dopo ore scoprirò di aver saltato qualche pagina, forse un capitolo intero. Ma poco importa, perchè almeno mi sono divertito. Soprattutto nel vedere la ragazza perfettina perdere le staffe.