Un inno alla purezza dell’essenziale. Un recupero di suoni semplici, sporcati solo da riverberi ma penetranti nella loro rarefazione.

Peter Silberman, nel suo primo lavoro solista “Impermanence”, uscito dopo la conclusione nel 2015 l’avventura in trio con gli Antlers, è andato alla ricerca del Suono primordiale, raffinato nella sua estetica scarna, poetico nel suo minimalismo.
Una scelta che nasce dall’elaborazione dei progetti con la band di Brooklyn, ma anche un obbligo dato dalle circostanze. Le sei tracce che compongono il disco sono consequenziali infatti alla dura prova psico-fisica caduta su Silberman: la perdita quasi totale dell’udito in un orecchio e l’acquisizione di un’ipersensibilità  nell’altro. La difficoltà  e la paura nate da questa situazione, che portava in sè l’idea insostenibile di dover forse rinunciare alla vita musicale, lo hanno portato a salvaguardarsi il più possibile dal mondo del rumore esterno, isolandosi, allontanandosi in quartieri newyorkesi più periferici. Ma la rinuncia alla musica non era una possibilità  pervenuta, e così Peter ne ha fatta una versione per lui accettabile, rendendola il più lieve, gentile possibile. Sussurrandola.
E così, una volta attenuatosi il dolore, è sgorgato, silenzioso, questo album. “Karuna” è il regno del riverbero, del suono rarefatto di una chitarra languida che si prolunga per quasi nove minuti. Intimista coì come “Maya”, o come “Ahimsa” dove la sua voce viene rincorsa dal suo stesso eco e affiancata solo da una chitarra. “New York” è una dolce narrazione della difficile relazione di Silberman con la sua città  natale, che ora abbaia nelle sue orecchie e che non è più in grado di sopportare. Per questo poi si lancia in inni alla preziosità  e alla difficoltà  del silenzio come “Gone Beyond”: Ti sto ascoltando, Silenzio, ma Dio, c’è così tanto rumore. E chiude il discorso con la pace ottenuta dal suo ritrovamento nella totale assenza di voce della title track.

“Impermanence” è una delicata e fragile opera di corde e voce, alla ricerca di un mondo ovattato e al di fuori del fragore chiassoso e estraniante del contemporaneo, in un ambiente sonoro sporco che ricorda incisioni blues d’altri tempi grazie alla re-incisione dei brani su nastri vecchi.
Peter si è ritagliato il suo angolino privato, un cantuccio morbido e accogliente dove la musica è di un naturale candore che vuole, come canta in “Ahimsa”, Invece del nonsense assordante, condividere il silenzio.