L’11 aprile del 2009 la New School of Social Research di New York ha ospitato un convegno intitolato “What was the hipster? A sociological investigation” organizzato dai quei bravi ragazzi della rivista N+1 (per chi volesse approfondire, la risposta militante della costa orientale alla cricca diversamente militante di McSweeney’s, The Believer, etc.). Gli atti del convegno riflettono tutta la problematicità  di un’iniziativa del genere: catalogare le subculture giovanili, incrociarle con la teoria di classe, con Pitchfork, con tutte le Bedford Avenue d’America, persino con Norman Mailer, non è un’operazione banale. A molti partecipanti, l’idea di prendere sul serio un gruppo di tardo adolescenti che elevano l’acquisto di un paio di jeans a una forma d’arte (cit.) attraverso categorie che una volta servivano ad analizzare lo sforzo di emancipazione dei contadini cinesi è parso uno scherzo. A tre quarti dall’incontro tutti avevano i nervi a pezzi, sfiancati dall’impossibilità  di amare l’hipster, di assolverlo o di autodenunciarsi come tali.

In questo livore, in questo mancato riconoscimento e in questa consapevolezza rimossa, per me, c’è tutto quello che si può dire sul sorprendente esordio e probabilmente unico album de I Cani (c’è da pensare che se questo ragazzo tornerà  a esprimersi, lo farà  con un nome diverso e una fedina penale riverniciata. Nel frattempo, forse, avrà  anche deciso cosa fare della sua faccia). La valutazione di questo esordio procede per gradi e ricalca un po’ il modo in cui ami Wes Anderson quando è solo una tua scoperta, e il modo in cui lo odi quando ti accorgi che condividi questa passione con milioni di persone brutte, oscene e senza talento. E’ una sindrome etichettabile e già  etichettata.

E dunque, la cosa più infelice che può capitare al sorprendente esordio dei Cani è proprio questa: che l’arco della sua scoperta sia troppo breve, che l’originale meraviglia, di cui gran parte della casta della scena dal basso italiana è stata partecipe, si traduca nel cinismo distaccato di chi non ne può più, di sentirsi smascherato nella debolezza del suo armadio e nella serialità  della sua divisa indipendente. O forse, e questo è da tenere in conto, ne è solo annoiato.

La musica qui, non è davvero importante, trattasi di un elettropop spontaneo che se non altro spazza via mille ingenuità  da chitarra lamentosa e ricattatoria o da canzone melodica italiana rivisitata con piglio d’autore.

Più apprezzabili, invece, sono certe storie che il disco racconta: storie di cui non tutti possono essere partecipi- non tanto per American Apparel e Mac Pro in cucina, quanto per scoutismo, discreta borghesia e cattolicesimo problematico nel retrobottega- ma molti sì. E quando ci sono tentativi più umani come “Perdona e Dimentica” e “Post-Punk” (che si annunciava come una catastrofica presa per i fondelli di chi era post-punk prima di tutti gli altri e in questo non sarebbe stato davvero più profondo di un gruppo su Facebook e per fortuna no, è il pezzo più interessante dell’esordio) allora ti vengono in mente le cose che I Cani avrebbe potuto dire al di là  della sua oggettiva e soffocante onniscienza.

Ci sono cose che non dobbiamo chiederci, in seguito all’ascolto dell’album de I Cani, e sono queste: nello scontro- abbastanza cercato- tra la blasonata lotta per il mutuo sociale e il dj set+ reading in tutte le Monti di Italia a cui si partecipa con disinvolto distacco, cosa ha la meglio? Cosa è più autentico? Sono domande grossolane che solo i fan di Wes Anderson che odiamo possono fare.

Piuttosto, dobbiamo riflettere sul nostro diritto di non essere pauperistici, romantici o ironici: oltre alla vita violenta, alla vita agra e a tutte le cose divertenti che non faremo mai più, c’è ancora qualcosa da raccontare? E se sì, chi lo fa?