Una stanza tutta per sè, diceva Virginia. La stanza tutta per sè, però, va tenuta in ordine. Pulita. Non è facile, specialmente quando sei uno studente fuorisede. Se poi, come mi è tristemente capitato, non attendi visite (sì, quel tipo di visite a cui avete subito pensato voi, maliziosi appassionati di musica che avete salvato tra i preferiti Pitchfork accanto a YouPorn e Boobstagram), il degrado sarà  l’unico approdo possibile. Ma c’è un limite oltre cui non può andare nemmeno il più rude degli uomini, l’ultimo dei punkabbestia. Armato di buona volontà , aspirapolvere, fuseaux rosa shocking, finti panni swiffer, mi accingo ad affrontare ammassi di polvere grossi come mostri mitologici. Sull’iPod mi attende San Fermin.
Momento momento momento (sì, in stile Peter Griffin). Spengo l’aspirapolvere. Taglio via i fuseaux (non riuscivo a sfilarli). Rinvio la battaglia con lo sporco. è per una giusta causa. L’album omonimo di San Fermin non è uno di quei dischi da sottofondo mentre fai altro. Merita un ascolto liturgico, ad occhi chiusi.

La mente che si cela dietro questo nome che rinvia a corse di tori impazziti e a Fiesta di Hemingway è quella di Ellis Ludwig-Leone. Uno che si laurea in musica a Yale e poi decide di ritirarsi tra le Montagne Rocciose Canadesi, a Banff, in Alberta, per scrivere un album tutto da solo. Tutto questo a ventiquattro anni. Nel suo progetto di scrittura include più di venti musicisti, cpmpresi un quartetto d’archi e un quartetto di ottoni, roba che la maggior parte dei ventiquattrenni (compreso il sottoscritto) non sa nemmeno cosa sia.
All’inizio mi sento fuori posto. Archi e fiati, arrangiamenti importanti, studiati. Per un istante ritorno a quindici anni fa, quando i miei genitori mi portarono al Teatro Vincenzo Bellini di Catania per assistere a un’opera di cui non ricordo il nome, anche perchè mi addormentai quasi subito. Ricordo però che già  gli stucchi alle pareti e gli affreschi, le decorazioni in legno, i marmi, mi avevano stordito. Ecco, è così che mi sono sentito dopo il primo ascolto di San Fermin.

è un album che va ascoltato in continuità , più di una volta, per apprezzarne i dettagli e l’idea che ne sorregge l’architettura. Il gioco tra la voce baritonale di Allen Tate (impossibile non pensare a Matt Berninger fin dalla traccia che apre il disco, “Renaissance!”) e quelle da soprano di Jess Wolfe e Holly Laessig dà  corpo, lungo tutto l’album, alla storia d’amore tra i due personaggi immaginati da Ludwig-Leone. Una storia d’amore che si trasforma in una lotta, un corpo a corpo. Questo conflitto è espresso anche da stili diversi per le canzoni maschili e per quelle femminili: “Crueler Kind” e “Sonsick”, due delle canzoni femminili, sono più pop, più luminose rispetto ai pezzi cantati dalla voce baritonale di Allen Tate, capace di creare un’atmosfera più malinconica e dolente, amplificata dalla scrittura sapiente di Ludwig-Leone.

La sensazione di inadeguatezza è passata dopo un paio di ascolti. Mi sento a mio agio nelle stanze create da Ellis Ludwig-Leone, tra la carta da parati ingiallita dal tempo, i mobili intagliati in un legno più vecchio di me, ma lucidi e solidi, sprofondato su un divano a fiori come quello che c’era in casa dei miei nonni. è la luce che filtra dalle tende a essere diversa, a essere nuova, a restituire la vita a questi oggetti provenienti da un tempo in cui sia io che Ellis non eravamo ancora nati. Ecco, il giovane compositore newyorkese ha il merito di restituire una nuova vita al classico, riassemblandone i pezzi fino a renderlo contemporaneo.
Arrivo alla fine di San Fermin, sarà  la quarta volta che lo ascolto. L’amore è una lotta che non si risolverà  mai, è un conflitto che graffia e fa sanguinare, ma forse proprio per questo è necessario a verificare se siamo ancora vivi. L’amore ci farà  a pezzi di nuovo, come diceva il vecchio Ian, pace all’anima sua.
Quando riapro gli occhi è già  buio. Poggio un piede sul parquet. Devo ancora pulire la mia stanza.

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