Scegliere l’anagramma del tuo nome come titolo dell’album non è una mossa particolarmente intelligente, perchè i giochi di parole sono sempre una brutta idea (sempre) e se ti sei già  giocato il self-titled, allora possiamo andare avanti. Anche perchè “El Pintor” a me piace, ma non brilla certo per originalità : gli Interpol cantano gli Interpol, cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia e neanche il titolo del vostro album. Same town, new story, cantano, ma a me pare che il panorama fuori dalla finestra non sia cambiato, ma neanche le storie.

C’è qualcosa di estremamente affascinante in una scelta che esclude tutto il resto: una fede, un colore, una canzone che suona sempre allo stesso modo, le variazioni su un unico tema. Gli Interpol sono questa cosa qui: non hanno bisogno di parlare di tutto, non hanno bisogno di reinventarsi, assomigliano più a una veglia, che a una festa. Il monocromo non è semplice da portare. E a loro non sta male. Anzi.
Quando ho scoperto che gli Interpol stavano per pubblicare un nuovo disco, ho pensato che volevo scriverne qualcosa, qualcosa che dicesse che gli Interpol erano tornati e che potevamo dimenticarci il disco del 2010: ho passato tutta l’estate ad ascoltare Turn on the bright lights e alla fine è arrivato El Pintor e assomigliava a un vecchio fidanzato con cui un tempo avevi tutta l’intimità  del mondo e poi non più e toccava ripredere confidenza. Però sapeva cosa ti piaceva che ti facessero, conosceva tutti i segni che avevi sul corpo – love is never done so easily o qualcosa del genere, o anche, it’s the way that I hold you tight. La diagnosi è: questa cosa non durerà  per molto, non avrà  più l’intensità  di quando ti sei innamorato la prima volta ““ ma ti ricorda che questa cosa (questa persona, questo gruppo, questo posto) l’hai amata, almeno una volta. Voi siete stati qui.

Le canzoni degli Interpol assomigliano a baci sulle imperfezioni, alle coppie di fidanzati che vanno a sentirli dal vivo e nessuna di quelle canzoni è la canzone della loro vita, ma quella voce resta la voce della loro relazione. C’è un’epica non solo minore, ma anche incurante nelle loro canzoni, ci sono i cieli bassi e le giornate che diventano significative solo per poche persone.
(Penso a quel mio amico che ha portato una ragazza con cui usciva da poco a un concerto degli Interpol e a come queste canzoni si appiccichino a una stagione, a un’età  che si finisce per perdere, ma mai del tutto.)

“All the rage back home” sembra parlare di questo: di come stia provando ad amare questo disco e di come non ci riesca, di come anche un singolo così buono non sia abbastanza: it won’t leave me shaking. Ci sono canzoni belle in questo disco, c’è la voce di Paul Banks, c’è tutto il sistema di riferimento degli Interpol, c’è un disco che ho ascoltato quasi ossessivamente perchè riconoscevo la scintilla che trovavo nei primi due album: ho pensato che se fosse girato abbastanza nel lettore, allora sarebbe uscito fuori quello che cercavo. Ad un certo punto questo diventa il messaggio ad una amica, perchè voi ci dovete andare, diventa il fatto che ogni cosa che fanno gli Interpol assomigli a dei ricordi imprecisi, come un’influenza più resistente e nascosta. Per quello che può durare, per quelle stagioni che ogni tanto tornano e brillano per qualche tempo.

Photo Credit: Ebru Yildiz