Ci si interroga spesso, al di là  della Manica, sull’effettiva utilità  dell’etichetta rock da applicare mentre si cataloga una band. Sembrano esistere varie scuole di pensiero, in un mare di proposte che ““ bene o male ““ ricalcano tutte un certo tipo di suono all’americana, intente a fare l’occhiolino a episodi di successo del più recente passato. Ok, a volte ci si azzecca, perchè tra le tante espressioni musicali dell’ultimo decennio, poco è rimasto ai nostri giorni (ed alle nostre orecchie).

Black Foxxes fanno eccezione e il rock made in Britain  sembra essere oggi più forte che mai. Questo strabiliante trio di Exeter (Mark Holley, Tristan Jane, Ant Thornton) ha lavorato alacremente negli ultimi due anni (dall’EP “Pines” del 2014 in poi), finendo sotto il radar di Spinfarm Records (Universal). “I’m Not Well” è il loro esordio e,  lo diciamo subito e senza timori, rimarrà  incastonato in questo 2016 e ““ forse ““ negli anni a venire. E’ un piccolo gioiello, uno di quei debutti sulla scena che potrebbe sancire l’inizio di un’era per la band e legacy di un genere mai completamente assopitosi.

“I’m Not Well” è ““ nel complesso ““ un concentrato di atmosfere rock, con venature indie e quale slancio post-rock. La brillante voce di Mark Holley squarcia il cielo grigio di un  cupo paesaggio. Lo fa nella title track che racconta di dipendenze e rinascite, ma anche in “Husk” e nella successive “Whatever Lets You Cope”, di straordinaria bellezza ed intensità  emotiva. Non sono un viaggio semplice o spensierato, i 43 minuti di questo LP. La band suona in maniera certosina, tra ricerca del minimo dettaglio e una produzione più che ordinata. Le liriche sono dense di una frustrazione che a tratti si prende la scena e sembra non volerla lasciare. “How We Rust” e “River” segnano  il ritmo di un quasi slowcore, mentre “Maple Summer” alza beat e decibel, mentre Holley spiega la propria voce verso vette inattese.

Gli altri episodi di “I’m Not Well” ricordano a tratti i Brand New più introspettivi (“Bronte”), per poi avventurarsi in esplorazioni in cui mai le chitarre elettriche e i riverberi vengono meno (“Waking Up”, “Home”). “Slow Jams Forever”, tra le più tese dell’intero album, mette ancora in luce tutte le qualità  dei Black Foxxes, che raccontano in “Pines” le ruvide incertezze della vita.

Ecco dunque il crescendo finale, che come un’onda arriva e ti porta via con sè. Black Foxxes, signori, vi colpiranno  come una folata di vento gelido. Vi ricorderanno quando, da bambini, vi svegliavate impauriti dopo un brutto incubo. Avranno il sapore di una di quelle mattine grigie dove si fa fatica a trovare il senso delle cose.

Del resto, Holley lo urla al cielo, I’m not well.