Nuovo colpaccio hipster-friendly in casa 4AD, ancora fresca del clamore post-Grimes, solo l’ultima protagonista di una serie di contratti eccellenti destinati a un pubblico che non si limiti alla solita nicchia di affezionati ascoltatori. Il nuovo nome dell’etichetta britannica non si discosta poi troppo dal filone della citata Boucher: medesima provenienza canadese, medesime conoscenze (entrambi i componenti del duo in questione hanno fatto parte in passato dei Born Gold, band di supporto dell’ultimo tour della stella indietronica di Montreal), un immaginario proposto che persegue gli ideali dell’abusato filone dell’oscuro e del mistero.

Non ci si allontana poi molto neanche nel mero ambito sonoro. La provenienza di entrambi i progetti musicali è infatti la scena witch e tutto ciò che ne ha conseguito negli ultimi 2-3 anni. E proprio come nel caso di Grimes, l’attesa che ha accompagnato l’uscita del debutto del duo composto da Megan James and Corin Roddick è motivata principalmente dalla curiosità  riguardo come tali album potessero traghettare una scena musicale morta a breve distanza dalla propria nascita. Se però all’ascolto di “Visions” risulta palese come Claire Boucher sia riuscita in un modo alquanto subdolo a trascinare con sè questo fardello in una formula pop inedita, “Shrines”, per quanto godibile e ben fatto, non realizza la stessa magia.

Le prerogative affinchè il duo canadese trovasse la chiave di volta definitiva tra le sonorità  hipster-modaiole ormai trapassate del mondo witch e la formula alt-pop perfetta c’erano tutte: pochi brani editi ma di eccellente fattura, un esordio a testa alta con l’ottimo glitch-hop di “Lofticries” seguito degnamente dai synth eterei di “Obedear”, dal post-dubstep con tanto di ritornello catchy di “Belispeak” e, infine, dal buon buzz-single “Fineshrine”. E proprio in quest’ultimo pezzo risulta in qualche modo riassumibile l’intera parabola dei Purity Ring: come nel singolo in questione il duo, trovata una formula sonora interessante per spostarsi del minimo indispensabile dalla staticità  post-witch, preferisce rimanere in equilibrio su di essa senza proporre stravolgimenti degni di nota, così nell’intero disco, malgrado le buone intenzioni e un livello oggettivamente alto che li separa dalla marmaglia di progettini electro-indipendenti, viene tuttavia meno la speranza di aver sorpassato definitivamente le apatiche atmosfere della casastregata. Molti slanci suggerirebbero il contrario, come i glitch sincopati del dream-pop di “Amenamy” o i tappeti dubstep di “Cartographist”, tra i momenti più alti del disco, ma non bastano comunque ad elevare l’intero prodotto a modello esemplare per una futura generazione musicale; ciò non nega il piacere dell’ascolto in sè, andando piuttosto a porre l’amaro interrogativo sul futuro della band.

Credit Foto: Carson Davis Brown