“Last Place” è il quinto album studio dei Grandaddy che tornano sulla scena discografica a cinque anni dalla reunion (2012) e a oltre dieci dal loro quarto disco, “Just Like The Fambly Cat (2006).

Il nuovo disco presentato con il singolo “Why we won’t”, prima traccia dell’album, e “Brush with the wild” che la segue piacevolmente, ci riconduce subito per ispirazione e tematiche a “The Sophtware Slump” forse il miglior album della band Californiana. Quindi c’è il ritorno su propri passi e soprattutto l’approccio low-fi e la spiccata capacità  di scrivere brani power pop con tirate di synth coinvolgenti e potenti. Se con la buona partenza del disco vengono alla mente più lo scanzonato power-pop dei Weezer e Death Cab più che quello dei  Pavement, “Last Place” entra in una dimensione malinconica, grigia ma mai scolorita e appannata. E forse qui c’è la vera riuscita del disco. Unire la componente punk pop con un indie rock che traballa e barcolla diventando un songwriting scarno ma intenso e a tratti anche struggente. Una svolta che si avverte con il brano “The Boat is in the Barn” dove è forte il richiamo al passato sonoro della band fatto di fascinose e dolceamare ballads che in fondo sono un pò la specialità  della casa. Meno follia forse, meno cattiveria e se il pezzo psyco-punkettone “Check Injin” ci ridesta un attimo verso la fine del disco emerge il forte senso di Jason Lytle per il cantautorato.

Nonostante il forte ritorno a formule e soluzioni chitarristiche e ritmiche già  presenti nei precedenti lavori, “Last Place” è davvero un buon disco, con un’identità  tutta sua. Energico, quanto basta, dolciastro e soprattutto amaro; in”This is the Part” e i suoi archi c’è un’intensità  incredibile. La chiusura seppur lenta è elegente e riflessiva. Due giocate di prestigio chiudono il disco “A lost Machine” e “Songbird Son”: provate a resistere al fascino di queste ballads contemporanee.

Photo: Nortonius / CC BY-SA