Due anni possono essere lunghissimi, quando di anni ne hai 18. Due anni sono passati da quell’EP di debutto, “Habit”, che aveva conquistato la critica americana. Lindsey Jordan ha appena finito la scuola superiore a Baltimora e ha festeggiato con un contratto su Matador, l’uscita del suo primo LP e una sequela di articoli che già  la incoronano come la salvatrice dell’indie rock. Le atmosfere lo-fi da cameretta di “Habit” lasciano spazio a un disco assemblato meticolosamente, indubbiamente uno dei migliori esordi degli ultimi tempi, perlomeno per quelli che continuano a credere nel valore della musica fondata su chitarra, basso e batteria.

Nell’ottima produzione di Jake Aron (responsabile dell’ultima uscita dei Grizzly Bear ma anche di quella di Solange), sbocciano tutte le promesse fatte da “Habit”. La voce è ora in primo piano e ricchissima di sfumature, la ritmica compattissima e mai fuori posto, ma soprattutto le chitarre elettriche sono le migliori che abbiamo sentito da tempo. Gli accordi aperti pavementiani, i piccoli riff, gli assoli che esplodono all’improvviso sono tra i momenti più appaganti delle 10 tracce che compongono “Lush”. Lindsey Jordan cita Avril Lavigne e Fiona Apple tra le artiste che l’hanno influenzata, ma un ruolo importante deve averlo giocato anche Mary Timony degli Ex Hex, sua insegnante di chitarra.

Dopo l’inizio obliquo di “Intro”, “Pristine” mette subito le cose in chiaro. Un mid-tempo dalle chiarissime influenze nineties, una malinconia emo che permea la melodia e un testo che è un diario adolescenziale a difese talmente abbassate da rendere impossibile avanzare critiche. Il primo riferimento che viene in mente è quello di Waxahatchee: se manca la genialità  descrittiva di Katie Crutchfield, è simile la forza disarmante nell’affrontare i sentimenti, l’ostinazione a ricercare la sincerità  e la catarsi: “Is there any better feeling than coming clean?”. Musicalmente c’è la stessa naturalezza melodica, con l’aggiunta di una irrequietezza che sa rallentare e accelerare il ritmo improvvisamente, anche più volte nel medesimo brano.

La palette sonora del disco è tutto sommato abbastanza limitata, ma evolve in modo organico canzone dopo canzone. La doppietta “Speaking Terms” e “Heat Wave” porta toni languidi, arpeggi Fender grondanti di riverbero. Nella prima, l’abisso di tristezza di un amore finito cambia passo di colpo, come se il momento in cui la batteria raddoppia il ritmo fosse esattamente quello in cui si sceglie di tornare a guardare avanti. Nella seconda, che inizia sfiancata dal caldo estivo del titolo, c’è un crescendo costruito benissimo, che sale di due gradini, per scendere di uno e salire di altri due, punteggiato da brevi assoli ipersaturi; il testo si muove in parallelo, ossessionato da una relazione che sembra non riuscire a chiudersi, ma alla fine di questo ottovolante emotivo e musicale le idee sono finalmente chiare: “I’m feeling low / I’m not into sometimes”.

“Stick” è l’unico brano ripreso dall’EP di esordio, che introduce alla seconda parte dell’album, quella che a dire dell’autrice è la parte più intensa e meno immediata, da ascoltare “piangendo, con un barattolo di gelato”[1]. “Let’s Find an Out” e “Golden Dream” scorrono veloci e inafferrabili come sogni dai contorni sfumati e conducono al climax di “Full Control”, l’acuto fragile ma sicuro di sè che urla: “I’m in full control / I’m not lost / Even when it’s love / Even when it’s not”. Sono infine due lenti in 3/4 a chiudere il disco, richiamando le atmosfere di Julien Baker, sua compagna di etichetta: “Deep Sea”, una ballata slowcore arricchita da un tenue contrappunto di corno, e “Anytime”, che si appoggia solo su una chitarra appena distorta, come un ultimo bis suonato da sola sul palco.

Non c’è nulla di veramente nuovo in questi 38 minuti, ma al contempo nulla che suoni datato. Come la snail mail, un nomignolo affettuoso per la vecchia posta fatta di lettere e francobolli, Lindsey Jordan è preoccupata più del contenuto che della velocità . “Non sto cercando di conquistare il mondo”[2], ha detto di recente. Per raccontarlo, aggiungiamo noi, una penna e una chitarra elettrica a volte funzionano meglio di email e campionatori.