Non esiste alcuna democrazia, nè libertà , nè giustizia; i diversi governi hanno fallito, tutti, senza alcuna eccezione. Non solo, quindi, quelli che qui, in Occidente, amiamo definire stati canaglia, dittature militari, teocrazie assolutiste, regimi dispotici o autoritari, ma anche i nostri stessi parlamenti, le nostre istituzioni civili e militari, le nostre forze di polizia e tutto ciò che è connesso, direttamente o indirettamente, al sistema di potere/controllo dominante, compresi i vecchi ed i nuovi media. Sono tutti ugualmente responsabili del baratro nel quale il pianeta sta per cadere e adesso che il processo di auto-distruzione è irreversibile, non ci resta che prenderne atto ed attendere l’auspicabile fine. Anzi, nel frattempo, per rendere le cose ancora più veloci e favorire quella che sarà  la nuova alba del mondo, i Godspeed You! Black Emperor dettano i punti di quella che è una sorta di agenda sociale, economica e politica:

  • svuotare le prigioni;
  • togliere ogni potere alla polizia, trasferendolo alle persone che vivono in quei quartieri marginali che, solitamente, i poliziotti amano brutalizzare e prendere di mira;
  • combattere i nuovi imperialismi e colonialismi, mettendo fine alle guerre decennali che essi alimentano e sovvenzionano – per i loro scopi – in diverse regioni del mondo;
  • fare in modo che nessuno possa più concentrare nelle proprie mani ingenti risorse e ricchezze.

Un messaggio, quello del collettivo canadese, che richiama un po’ la dichiarazione dei diritti di stampo clashiano, “Know Your Rights”, rendendola, però, più caustica ed estrema – soprattutto alla luce della angosciosa constatazione che non possiamo più salvarci, nè essere salvati – e trasformandola in una sorta di proclama anarco-punk che non vuole fare aperture, nè concedere alcuna speranza, a coloro che si sono compromessi.

Un disco che, di conseguenza, si sottrae a qualsiasi logica commerciale, radiofonica o di mercato, ponendosi, il più possibile, in antitesi col mondo dei social, con la rete globale, con le piattaforme di streaming audio, con le potenti ed influenti multinazionali e con le grandi reti di distribuzione e vendita. Quattro brani di musica introspettiva, claustrofobica e viscerale, che spostano i confini del post-rock verso sonorità  di matrice sperimentale, noise, acida e d’avanguardia, inglobando anche elementi più etnici, provenienti dai luoghi e dagli scenari più marginalizzati, sfruttati e brutalizzati. Quattro brani che ampliano le nostre percezioni consuete, travolgendo tutto ciò che di artificiale, finto e malevolo abbiamo costruito dentro e fuori di noi, annientando ogni inutile e complessa sovrastruttura, nel nome di quella parte più selvaggia, indomita e istintiva esistente in ciascuno di noi: suo deve essere il controllo, sue debbono essere le scelte.

L’album è una sorta di ultimatum sonoro da parte di una band che è stata sempre coerente con le proprie idee: pochissime interviste, nessuna scorciatoia, zero spazio alla mondanità  o alle apparenze, persino poche testimonianze fotografiche, ma una volontà  precisa, concreta e determinata a rioccupare gli spazi perduti, verso i quali non sono più possibili dialoghi, accordi o compromessi, ma vi è l’urgenza – e nel disco si respira – di riappropriarsene in maniera veemente, immediata e vigorosa, perchè il tempo a disposizione di questo mondo e dei suoi attuali governanti è agli sgoccioli.

Tempo che, invece, non viene risparmiato, ovviamente, alle loro divagazioni strumentali. I venti minuti d’apertura, “A Military Alphabet”, sono uno sfogo ossessivo ed agguerrito, uno scatto d’orgoglio pervaso da atmosfere lisergiche, persuasive, psichedeliche e noise rock, concepite per sintonizzarsi sia con la parte più razionale, che con quella più emotiva, delle nostre personalità . Suoni che possono apparire sinistri e drammatici, intervallati da rumori naturali, rumori metropolitani, voci ultraterrene, emarginate e dolenti, in modo da evocare un senso di smarrimento ed abbandono che si trasforma nella miccia da cui prende origine l’incendio finale, un incendio che riduce in cenere le nostre città , la nostra ostentata tecnologia, la nostra futile superiorità , gli oscuri, vacui ed ostili fantasmi di “Government Came”.

Intanto le campane annunciano il nuovo giorno, le nostre anime si espandono negli spazi lasciati finalmente liberi, muovendosi tra sonorità  rarefatte e post-moderne, seducenti e profonde, verso un redivivo e ritrovato orizzonte post-rock. “Our Side Has To Win” è la vera terra promessa, il punto d’arrivo di quest’album concettuale e tormentato, la nuova possibilità  data all’umanità  di ricostruire una società , una politica, una famiglia, una scuola, delle istituzioni, un’economia, delle interazioni, un mondo del lavoro che non abbiano più nulla a che vedere con quello che abbiamo fatto finora, con i limiti e le barriere ideologiche attorno alle quali ci siamo soffocati, in modo da rendere, finalmente, reali, attuali e concrete le visioni lennoniane di “Imagine”.