“Once Twice Melody” è l’ottava tappa di una carriera fino ad adesso inattaccabile. I Beach House incarnano forse come nessun altro il concetto di “dream pop” oggi: una categoria giornalistica, – come d’altronde quasi tutte le categorie di chi cerca di descrivervi i flussi della musica – che non riuscirà  mai davvero a descrivere le suggestioni contenute nelle canzoni del duo composto da Victoria Legrand e Alex Scully, piccoli, fragilissimi, immensi gioielli dalla caratura inestimabile.
Nel percorso iniziato durante lo scorso decennio, i due hanno cesellato un suono ormai riconoscibile, che si abbevera ad una fonte di sogno in penombra, tra un’oscurità  cullante e gocce dolceamare di luce.

L’indole dei Beach House li ha sempre portati in un luogo in un certo senso antico, nel senso più nobile e non banalmente retromodernista del termine. Antico, ma proprio per questo eterno, una prospettiva obliqua su un mondo incontaminato sepolto in un dormiveglia, fuori dal tempo e quindi dallo spazio, eppure vicino, come un velo di malinconia che vuole adagiarsi sul Reale per riportare un tocco di umanità  fuori dai confini svagati di un reame onirico, tra flemma psichedelica e pulsazioni di purificato melodismo sentimentalista, nel senso più autentico del termine. In questo senso, ma anche in tanti altri sensi, il messaggio implicito dei Beach House va inteso e vissuto per la sua preziosità .

Per l’occasione, l’album è stato autoprodotto dai Nostri, con l’aiuto al missaggio soprattutto di un personaggio scafato e abilissimo come Alan Moulder, mentre qui e là  sono intervenuti anche Caesar Edmunds, Trevor Spencer e Dave Fridman. Il sound viene poi arricchito dagli arrangiamenti di archi firmati da David Campbell, che in alcune tracce fanno librare la capacità  espressiva ed emozionale del duo verso un senso accentuato della spazialità , senza che però, d’altra parte, venga scalfito o tradito quel sinuoso e avvolgente intimismo che ben conosciamo.

Il lavoro, nel suo affacciarsi sul mercato, è frutto di una strategia che ammicca alle dinamiche della modernità , ma al contempo le rinnega pure, essendo uscito a scaglioni a partire dallo scorso novembre, fino alla recente pubblicazione completa, che comprende una scaletta di ben 18 brani per quasi un’ora e mezza di musica.

Alcuni noteranno una sontuosità  maggiore in questa nuova raccolta. Altri dopotutto riconosceranno quella cifra musicale così familiare, ricordando l’antico stupore del passato, forse senza rimanere avvinti più di tanto. Eppure l’impronta melodica delle tracce è sempre potentissima nella sua infinita dolcezza. Colpiscono nel segno le pulsazioni tra raccoglimento e magniloquenza synth-etica di “Superstar” e “Over Over”, mentre le lacrime sgualcite di una “ESP” e “Sunset” evocano riverberi di ricordi nella pioggia, con un romanticismo trasognato che ha pochi eguali nella musica di oggi. Lo shoegaze più palpitante si fa largo nella luminosa scenografia sonora di “Only You Know”, riempiendo le casse di cascate scintillanti di un suono pieno e rotondo, un suono che in parte si svuota e diventa più quieto e carezzevole in una “Many Nights” fatta di stille dreamy che gocciolano da xilofoni fatati, organetti dimenticati tra l’orizzonte e il tramonto, contrappunti di chitarre liquide e tastiere in dissolvenza siderale.

Consigliamo di riascoltare più e più volte questo monolite bianco dei Beach House per coglierne il vero valore e le emozioni più nascoste.

Pur non riuscendo ad oggi a considerarlo il lavoro migliore della coppia, l’impressione è che l’ispirazione sia rimasta assolutamente intatta.

Credit Foto: David Belisle