Con l’uscita di “O Monolith” si chiude anche il secondo giro d’onore della trimurti del “nuovo post-punk” inglese, che a sentir la critica specializzata si comporrebbe, oltre che degli Squid, dei black midi e dei Black Country, New Road. Etichetta che andrebbe tra l’altro riveduta, visto che di post-punk, da queste parti, se n’è sentito ben poco: il percorso artistico dei presunti campioni del movimento si rivela piuttosto una filiazione legittima nella trasmissione patrilineare che dal krautrock conduce al post-rock, passando per il progressive d’avanguardia. Insomma, più This Heat che Joy Division, con buona pace delle incasellature forzate che evidentemente faticano a tenere il passo dei tempi.

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Stretti fra gli incensati “Ants From Up There” e “Hellfire“, gli Squid sentono probabilmente il peso di dover mantenere il posto in prima fila ed alzano il tiro con un sophomore meno alieno e più terreno rispetto allo straniato futurismo urbano di “Bright Green Field“, che poteva contare almeno un paio di capolavori (il gorgo di strilli stregoneschi in “Narrator”, l’incessante motorik dei NEU! nell’apoteosi “Pamphlets”). Rimangiandosi molte delle premesse, la banda entra in un territorio meno battuto e rischia pure di rimanerci impantanata.

La prima parte promette abbastanza bene. Il dub zoppo contrappuntato di fiati di “Undergrowth” lambisce quasi il funk-metal, non fosse per le isterie free-jazz e una grandeur che tradisce la ricerca di una teatralità bislacca, da qualche parte fra Radiohead, Arcade Fire e King Crimson. Il sigillo di originalità è garantito da quell’accento british svagato e biascicante che impedisce agli Squid di prendersi troppo sul serio (ed è un gran bene). “Swing (In a Dream)”, singolo di lancio calibrato a percussività trattenuta, è perfino orecchiabile.

Con l’urgenza di puntare in alto, però, gli Squid scordano troppo spesso di dare coesione al loro discorso e sfilacciano le intuizioni in modo ancor più labirintico che in “Bright Green Field”. “The Blades”, sommersa da rumorini bizzarri, bip e glitch, divertenti o fastidiosi che siano, che altrove erano stuzzicanti intermezzi e qui paiono la ragion d’essere, deflagra ancora una volta come nei black midi; e “Devil’s Den” (abbrivio acustico e soffuso, folkeggiante lo-fi marinaresco), tradisce la stessa perversione per la dissonanza sbilenca dei compari londinesi. Svetta perlomeno il piglio schizoide di Ollie Judge, che nella baraonda semantica riesce sempre a cavar fuori il suo personalissimo spettacolo circense. Anche “Green Light” rimanda, neanche troppo implicitamente, alle strutture kraut/math di “Schlagenheim“.

Quest’ossessione per arrangiamenti cocciutamente eccentrici nobilita almeno “After the Flesh”, un sensuale duetto su nastro trasportatore, i cui fragili cambi di sfumatura mutano forma in un gioco di specchi che conduce dal paradiso all’inferno senza soluzione di continuità. E in “Siphon Song” è una voce robotica adagiata su languide pulsazioni a celebrare l’improbabile matrimonio fra Kraftwerk e Pink Floyd. Il climax psichedelico giustappone un’orazione funebre a vortici shoegaze: negli anni ’90 sarebbe stata farina nel sacco dei Blur.

Parliamoci chiaro: “O Monolith” non è affatto un brutto album, ma non è, banalmente, il passo avanti che tutti aspettavano dopo l’ottimo esordio del 2021. Come sospettai anche per “Hellfire”, purtroppo mancano i classici: “Bright Green Field” si concludeva con la spettacolare cavalcata di “Pamphlets”, qui neanche la chiusa si discosta dalla media e lascia una sensazione di impermeabilità che prevale sugli sprazzi di classe irregolarmente disseminati. I Black Country, New Road hanno fatto il percorso inverso, e hanno fatto centro (più sperimentali e più orecchiabili). Valga come avviso per chi seguirà: per quanto ti sforzi di fare lo stravagante, ricordati sempre che dall’altra parte c’è un pubblico, che come le belle donne sa amarti alla follia, ma è molto volubile se gli togli considerazione.