Ian T. McFarland from Los Angeles, USA, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons

Il conservatorio Giuseppe Verdi stasera si tinge di rosso. Sarà questo il colore predominante di tutta la sera, un po’ a ribadire come questo non sia un concerto ma un’esperienza immersiva e totalizzante, un viaggio sonoro e sensoriale.

Gli Swans sono a Milano dopo essere passati la scorsa primavera a Bologna, nell’altrettanto affascinante teatro Duse, per presentare il loro ultimo lavoro “The Beggar“.

Alle 21.30, puntuali, salgono sul palco, come sempre di nero vestiti e con un incedere ieratico. Noi siamo tutti diligentemente seduti, quando Michael Gira fa segno che no, non ci vuole seduti, dobbiamo stare intorno a lui, in piedi, e decisamente questo ha senso: la loro musica ha la forma di cupe spire sempre più avvolgenti, non è possibile stare fermi, e nel contempo non è una musica fatta per ballare, è assolutizzante, i corpi si muovono in onde, stare seduti sarebbe stata una barriera imposta che probabilmente avremmo comunque infranto.

Il primo pezzo è quello che dà il titolo all’album, e sono 45 minuti senza tregua, dove le mani di Michael, unico punto colpito dalla luce – si muovono, richiamano, afferrano le nostre anime per condurle nell’oscurità e nella cupezza dei loro suoni e delle loro liriche.

Questo suo gesto, questo suo afferrare e condurre, è un gesto sofferente e caratterizzante, al punto tale da essere diventato iconico (per conferma, date un occhio al loro profilo Instagram).

I testi dei loro brani – da sempre – sono oscuri, sofferti e sofferenti, sono solchi scavati, e il volto di Michael, perfetto per un film di David Lynch, di fronte a noi è ipnotico tanto quanto la sua voce e le onde sonore che ci investono. Pochi rari momenti di tregua, e poi quelle fantastiche mani celebrano la ripartenza di tsunami sonori, sottolineati da Michael che si gira e incita un “More! More!” rivolto ai suoi.

Non c’è un termine per definire questa performance, se non assoluta. Non è facile scrivere questo report, sono sette brani che si snodano, si insinuano, si radicano in un momento che non è solo il qui e ora, ma si dilata e si contrae, come un sogno, sembra passare velocissimo e contemporaneamente sembra non finire mai.

Chi li ha già sentiti sa cosa aspettarsi, e quindi è arrivato preparato: i volumi degli Swans asfaltano, senza mezzi termini. I tappi abbassa volume sono pertanto un’opzione che molti (compresa la sottoscritta) non hanno disdegnato, e, ciò nonostante, la potenza del suono investe tutti. Mi sono chiesta se aver utilizzato questo strumento sia stato uno snaturare o meno il significato di un volume scelto apposta per essere investente, e non ho trovato una risposta, la lascio qui, come domanda aperta. Di mio ho fatto l’ultimo brano senza alcun supporto, e devo dire che è stato sfidante.

Alla fine sono state quasi due ore e mezza di qualcosa di incredibile, un concerto potentissimo come pochi altri a cui sia mai stata, manca la nebbia fuori, peccato, sarebbe stata proprio bene, in ogni caso mi ricorderò di questo concerto non solo nei prossimi giorni, ma per lungo tempo, come del più grandioso viaggio in un’oscurità densa e pulsante. Sembra spaventoso, ma è stato incredibile.