Cerco di incastrare la mia Panda tra un albero e un’Audi enorme parcheggiata tutta storta a occupare due posti. C’è il liscio stasera, mi dice il parcheggiatore, come a scusarsi per quelle auto grosse lasciate un po’ a caso nel piazzale antistante al Lido La Cucaracha. Sono gli anziani che non sanno posteggiare, dice con un’alzata di spalle.

Alcuni metri dopo l’ingresso passiamo attraverso una balera in riva al mare affollata di capelli grigi che ballano con una sicurezza e una coordinazione che mai ho avuto e mai avrò. Dopo più o meno cinquecento metri sulla sabbia, arriviamo al palco.
Da Pesaro a Catania, sempre di east coast si tratta. I Be Forest dovrebbero sentirsi a casa: lo Jonio è lì a pochi metri, oltre il chiosco dei cocktail. Una tettoia schiaccia lo spazio sul palco, al limite della claustrofobia. Tre estati fa, mi capitò di sentire in un contesto balneare simile i Soviet Soviet, l’altra punta di diamante della new wave nata e cresciuta nelle Marche, su quella costa est che negli ultimi anni sta regalando solo gemme alla musica indipendente italiana.

Le canzoni di “Earthbeat”, dal vivo, non mi convincono del tutto. Le cause sono molteplici. Il secondo disco dei Be Forest è, per sua natura, più rarefatto e curato del precedente, è un album che viene esaltato da un ascolto in cuffia, per apprezzare un suono cesellato e cristallino. Per forza di cose, quando si tratta di concerti così piccoli, gli impianti non sono quelli di Glastonbury, per cui il suono si sporca e la cura profusa in uno studio di registrazione si diluisce e si disperde. L’altro problema, forse il più fastidioso, è il pubblico. Va bene il compromesso per cui si organizza la cosiddetta “serata rock” dopo il concerto, con un dj set zeppo di Franz Ferdinand, Kaiser Chiefs, The Wombats e compagnia bella, pur di attirare pubblico e riempire il live. Questo compromesso può starci, meglio cinquanta persone sotto il palco che cinque. Ma se due terzi del pubblico parla e sghignazza mentre ci sono dei musicisti che suonano, forse questo compromesso andrebbe rimesso in discussione. A questa situazione va anche aggiunto un pubblico maleducato e, soprattutto, maschilista, che non risparmia apprezzamenti nei confronti della bassista e cantante Costanza Delle Rose.

Per almeno l’80% del pubblico maschile, Costanza è prima un bel corpo e poi una musicista, come se le sue competenze artistiche fossero un gradevole accidente aggiuntosi alla bellezza. Sarei ipocrita se dicessi che vedendola non ho pensato anch’io “bella ragazza”, non sto a fare l’anima pura che si scandalizza e non vede: il cortocircuito avviene quando l’attività  del vedere supera di gran lunga, e modifica, quella dell’ascoltare (e se, al contrario, Costanza fosse stata brutta?). Capisco un po’ meglio cosa intendesse Lauren Mayberry, cantante dei CHVRCHES, in un articolo apparso su The Guardian proprio un anno fa a proposito della misoginia online (ma valido per la misoginia tout court), che mi permetto qui di citare: Is the casual sexual objectification of women so commonplace that we should all just suck it up, roll over and accept defeat? I hope not. Objectification, whatever its form, is not something anyone should have to ‘just deal with. è giusto che un’artista donna per essere presa sul serio e per affermare le proprie qualità  debba faticare il doppio rispetto a un uomo e sia costretta a diventare un oggetto sessuale? No. Arresto subito il pericolo di una deriva retorica: non mi interessa decretare se questo atteggiamento sia sbagliato nel mondo perfetto delle idee, mi basta dire che lo è stato in quello reale, perchè le battute sessiste e i fischi hanno reso fastidiosa la fruizione del concerto. Chiusa questa parentesi sgradevole ma doverosa, il live dei Be Forest è più convincente quando arrivano i pezzi di Cold, l’album di debutto, new wave tagliente e immediata, raffiche algide in una notte d’estate, e allora gli impianti di non eccellente qualità , il chiacchericcio e la maleducazione del pubblico passano in secondo piano, schiacciati dal rullante marziale di Erica Terenzi.

Andiamo via subito dopo la fine del concerto. Qualche anno fa, saremmo rimasti anche per il dj set. La balera è ancora lì. Ecco cosa ci aspetta, forse. Magari restiamo a ballare. L’ultimo pezzo della serata, dice al microfono un signore pelato e tracagnotto che deve essere il dj. Torniamo a casa. Prima, però, scattiamo una foto alla balera. Ecco cosa ci aspetta, forse. Una balera, pura e semplice, senza un live da giustificare e mascherare.