Il progetto di una vita. Difficile trovare altre espressioni per definire “Groove Denied”, il nuovo album solista di Stephen Malkmus. Tredici anni di lavoro per dare forma a qualcosa di talmente particolare da poter essere considerato alla stregua di un laboratorio sonoro, nel quale l’ex cantante e chitarrista dei Pavement inserisce tutta la sua voglia di esplorare generi in precedenza appena sfiorati.

Prodotto e registrato in totale autonomia, il disco è in realtà  molto meno spiazzante di quanto si sarebbe potuto credere ““ soprattutto dopo la chiacchierata bocciatura ricevuta da parte dei dirigenti della Matador appena dodici mesi fa. L’effetto sorpresa comunque c’è, e questo di per sè è un aspetto assolutamente positivo.

Rispetto al recente passato, si avverte in maniera forte il desiderio di un ritorno a un approccio più naà¯f e curioso alla musica, in controtendenza quindi con la maturità  espressa al fianco dei Jicks. Malkmus sfida sè stesso e va alla ricerca di nuovi stimoli letteralmente “giocando” con sintetizzatori e drum machine dal gusto decisamente vintage. Stramberie come “Belziger Faceplant” e “Forget Your Place” (per non parlare della kraftwerkiana “Viktor Borgia”) sono troppo grezze per essere considerate vere e proprie canzoni pop; tuttavia, riescono a catturare l’attenzione già  dal primissimo ascolto. Il motivo è semplice: sono dannatamente divertenti.

Ci si accorge subito di essere all’ascolto di un artista che, nonostante la scarsa dimestichezza con l’elettronica, pigia tasti e sfiora manopole con una meraviglia e una dedizione simili a quelle che potrebbe provare un bambino rinchiuso tutto solo in un enorme negozio di giocattoli. “Groove Denied” rappresenta una sorta di taccuino sul quale l’ex Pavement registra i suoi piccoli esperimenti così come vengono, senza pensare troppo ad abbellimenti, arrangiamenti o strutture.

L’estetica lo-fi riprende il sopravvento in un disco che raccoglie spunti tanto dal gelido mondo della new wave più sintetica (il riff di basso di “A Bit Wilder” riporta alla mente le quattro corde di Simon Gallup e Peter Hook), quanto da quello rovente di un garage rock psichedelico, acido e stravagante che probabilmente sarebbe piaciuto al più folle tra gli ex collaboratori di Malkmus, Gary Young.

Le chitarre di “Come Get Me”, “Rushing The Acid Frat” e “Love The Door” sono lì per tranquillizzare i fan della prima ora, ma fino a un certo punto: questo album è stato concepito e registrato per non ripetere la solita solfa. Alla soglia delle cinquantatrè candeline da spegnere sulla torta, un tale coraggio nel reinventarsi non può che meritarsi un bell’otto in pagella.