A fine febbraio 2020 ““ quindi pochissime settimane prima dell’inizio della pandemia, dei lockdown e delle varie sciagure che hanno tormentato quell’anno infame ““ Ozzy Osbourne torna in pista con un album intitolato “Ordinary Man”. Un lavoro importante e attesissimo, promosso alla stregua di un piccolo evento, per ripartire dopo la fine della reunion dei Black Sabbath e riallacciare i fili di una carriera solista ferma al non indimenticabile “Scream” del 2010.

Il disco ottiene un buon riscontro commerciale ma, per motivi legati all’emergenza sanitaria e allo stato di salute del cantante britannico, non viene supportato da alcuna tournèe. Il comeback album di Ozzy, suo malgrado, finisce presto per scivolare nel dimenticatoio, spazzato via dalla tragicità  degli eventi.

Il nuovo “Patient Number 9” prova a rendere giustizia allo sfortunatissimo predecessore presentandosi al pubblico come suo ideale seguito. Consideriamolo pure una sorta di fratello gemello di “Ordinary Man”: stessi compositori, stesso produttore (Andrew Watt), stesso stile “autocelebrativo” (vengono richiamate un po’ tutte le varie ere musicali del nostro) e stesse tematiche dei testi (morte, fatalismo, follia, dipendenza, mancanza di fede e quel pizzico di ironia che non guasta mai).

Le uniche differenze sostanziali stanno nella folla di ospiti illustri che hanno partecipato alle registrazioni (nel precedente c’erano ma non erano così tanti) e nella qualità  complessiva del lavoro che, per la gioia di noi ascoltatori, in questa occasione è nettamente superiore.

Finalmente l’heavy metal torna a occupare un ruolo centrale nell’opera del Principe delle Tenebre. La mano di Watt continua a essere un po’ troppo leggera ma i suoni non sono fastidiosamente artificiali come quelli di “Ordinary Man”; restano tuttavia dubbi sulle scelte in fase di missaggio e sulla voce fin troppo “ritoccata” del povero Ozzy, assai indebolito dal morbo di Parkinson.

“Patient Number 9”, con tutti i suoi difetti e punti deboli, è un album molto più interessante, genuino e variegato del precedente. è il disco di una vecchia e appagatissima rockstar che, consapevole dell’età  che avanza, si toglie lo sfizio di omaggiare il suo glorioso passato senza produrre alcuno sforzo creativo davvero degno di nota, ma affidandosi ai fondamentali aiuti di una sfilza impressionante di guest star capaci di trasformare in oro luccicante qualsiasi nota.

In ogni brano troviamo un chitarrista solista diverso pronto a strabiliarci con tutte le sue caratteristiche e peculiarità  stilistiche. Jeff Beck ci regala un assolo veramente folle nell’epica title track ma non può far nulla per migliorare la scialba ballad “A Thousand Shades”. Eric Clapton aggiunge belle sfumature blues alla gradevolissima “One Of Those Days”, un bel pezzo hard rock nato per diventare singolo.

I fan dell’Ozzy solista possono godere per il ritorno in pianta stabile del leggendario Zakk Wylde che, seppur “addomesticato” da Andrew Watt (niente overdose di armonici per lui), ci regala dosi generose di ignoranza in “Parasite”, “Mr. Darkness”, “Evil Shuffle” e “Nothing Feels Right”, che suona come una outtake da “No More Tears”.

Le comparsate di Mike McCready dei Pearl Jam in “Immortal” e di Josh Homme dei Queens Of The Stone Age in “God Only Knows” convincono a pieni voti ma il podio per la miglior ospitata non può che andare al mitico Tony Iommi, protagonista indiscusso delle canzoni più sabbathiane della raccolta: la lunga e cupissima “No Escape From Now” (molte le similitudini con i pezzi di “13”, il canto del cigno dei Black Sabbath) e la devastante “Degradation Rules”, un inno alla masturbazione che non lascia nulla all’immaginazione (Degradation rules/Masturbating fools/Watching RedTube rules).

“Patient Number 9”, più che un semplice album, è una passerella di stelle del rock. E la lista non finisce qui: al basso si alternano Robert Trujillo (Metallica), Duff McKagan (Guns N’ Roses) e Chris Chaney (ex Jane’s Addiction), mentre alla batteria siedono Chad Smith (Red Hot Chili Peppers) e il compianto Taylor Hawkins (Foo Fighters), alla cui memoria è dedicato l’intero disco.