Credit: Michele Sanseverino

Nonostante siano passati vent’anni dal celebre “Socialismo Tascabile”, nonostante siano passati tredici anni dall’ultimo album, nonostante siano passati più di dieci anni dagli ultimi concerti e nonostante tutta la malinconia e tutte le delusioni che, nel frattempo, abbiamo accumulato, il rosso degli Offlaga Disco Pax non è affatto sbiadito, ma ha conservato tutta la forza e l’intensità dei tempi andati.

Un loro live non è una semplice esibizione sonora, ma è un vero e proprio gesto politico, compiuto in un’epoca che, oramai, ha completamente dimenticato cos’era l’impegno politico. Le loro canzoni hanno l’odore dei manifesti di Berlinguer per le strade del paese, delle biro rosse sulle agende di partito, della nebbia bassa sulle provinciali emiliane e delle vecchie sezioni del PCI, ormai chiuse da un pezzo, dove, ogni tanto, qualcuno passa e ricorda com’era ridere e sognare con i propri compagni e le proprie compagne. Il socialismo decantato dalla band di Reggio Emilia non è solamente un’ideologia, ma è soprattutto una casa; intanto i brani scorrono velocemente, come scorre, purtroppo, velocemente il tempo a nostra disposizione, trasformando le fabbriche in loft alla moda, i campi in centri commerciali e le feste dell’Unità in spocchiosi raduni elitari. Ma un concerto degli Offlaga Disco Pax ha, fortunatamente, ancora il sapore concreto del realismo degli anni Settanta, è ruvido, autentico, sincero e orgogliosamente impolverato. 

Non c’è traccia di retorica, né di redenzione, solamente la presa d’atto che il cambiamento è silenzioso ed inesorabile, le ideologie, come la spensieratezza, si sono frantumate e sbriciolate; quello che urlavamo vent’anni fa e che sembrava essere eterno, oggi, al massimo, lo sussurriamo; e le parole che ci facevano sentire parte di qualcosa, adesso, sembrano simboli svuotati, buoni, per lo più, per i post-nostalgici o per le magliette vintage.

Cosa dovremmo fare, allora? Rassegnarci?

Assolutamente no.

Dobbiamo prendere atto del fatto che la memoria degli eventi, delle storie umane, degli eroi e dei misfatti del passato è anch’essa una rivoluzione, l’innocenza proletaria può anche essere diventata una voce fuori campo, ma il suo senso più profondo continuerà a rivestire e ricoprire i nostri cuori; cuori che continuano a vedere lontano, che, puntualmente, si emozionano per quei personaggi suggestivi e assolutamente reali, come il professore destrorso di “Kappler” o la giovanissima pasionaria di “Khmer Rossa”.

Dal punto di vista strettamente sonoro le canzoni restano in perfetto equilibrio tra spoken-word, no-wave ed un’elettronica cruda e minimale, con interessanti divagazioni, alcune più dolci e melodiche e altre più spigolose e taglienti, in territori di matrice post-punk e shoegaze, che mostrano come Max Collini, Daniele Carretti e Mattia Ferrarini siano davvero in ottima forma. Non mancano, ovviamente, brevi, ma spassosi passaggi sul nostro sciagurato presente, né poteva mancare, ovviamente, il toccante e commovente ricordo di Enrico Fontanelli. Nel mentre, il concerto, tra vecchi e nuovi arrangiamenti, fedele alla sia missione catartica e sociale, si avvia alla conclusione e, nonostante l’amarezza, il dolore e il senso di svilimento provati da coloro, ancora troppi, nel mondo, a cui hanno davvero preso tutto, ce ne torniamo a casa soddisfatti, perché certe bandiere possono pure non sventolare più, ma certe emozioni, certe passioni, certe idee e certi sogni sono ancora intatti.