Siamo arrivati fino a qui, fino a questo punto. Siamo arrivati fino a James Blake: giovanotto inglese che ha racchiuso nel suo album d’esordio l’idea esatta di ciò che è oggi (e sarà  domani) musica. Dubstep scarnificato, fatto a pezzi e poi riassemblato in una forma meno ingombrante ma ugualmente pervasiva. A cui si sommano una serie di precise influenze provenienti dai mondi dell’alt-folk, del soul, dell’indie-rock. Un manifesto della maniera contemporanea di conoscere, perseguire, intendere e poi anche creare musica. Crollate le barriere tra i generi e le preoccupazioni per deviazioni commerciali e approcci radiofonici, quello che resta è uno spazio vasto da esplorare e riempire con intruizioni e talento. Due fattori di cui James Blake non difetta.

“Spazio” è un pensiero che emerge in continuazione nei quasi quaranta minuti che compongono l’album. Il più delle volte sotto forma di immagine: un luogo dai colori tenui, senza confini nè particolari che aiutino a creare punti di riferimento. E’ la base su cui James Blake edifica le sue immagini astratte, fatte di guglie e punte spinose, fatte, anche, di curve arcuate e profonde depressioni. Un’idea sulla carta banale, la più banale che ci sia: la partenza è il silenzio e il silenzio è riempito con dei suoni. Ma qui non è così banale: il silenzio è suono, è in maniera costante momento integrante della composizione. La rappresentazione grafica delle canzoni di James Blake, con gli alti, i bassi e i momenti di vuoto che si susseguono sullo schermo, è anche la rappresentazione ideale di quegli stessi suoni. Forse un cortocircuito, forse un cerchio che si chiude: il rusultato è l’esatta coincidenza tra tecnica e immaginario.

E’ chiaro fin dai primi secondi di “Unluck”: il piccolo tempo saltellante che accresce e riduce complessità , a cui si somma la voce soul di James Blake, capace, in un modo sulla carta inconciliabile, di essere allo stesso tempo avvolgente e calda, ma anche tagliente e gelida. Tutto quanto c’è da sapere è già  racchiuso in questi primi tre minuti. Da lì fino alla fine lo stupore permane inalterato. L’accumulo concentrico e disperato che guida “The Wilhelm Scream” e svanisce come vapore al vento. I vuoti enormi di “Lindisfarne I”, il cullante ondeggiare di “Lindisfarne II”. La ripetizone ossessiva e distorta di “I Mind”. L’implosione sintetica che chiude “I Never Learnt To Share”. Il soul androide e disperato di “Measurement”.

“Limit To Your Love” è la chiave di volta. C’è l’elettronica scheletrica e futuristica, c’è il calore della voce di Blake, c’è una canzone scritta in origine da Feist, qui stravolta ma con profondo rispetto per l’originale. Influenze diversissime che convivono e creano qualcosa di completamente inedito, non però per spririto di sperimentazione e calcolo teoretico: per semplice necessità , riflessione in musica del luogo preciso in cui ci troviamo, o meglio del margine più estremo di quel luogo. James Blake è questo, è un passo avanti fino al limite, fino al confine tra nuovo e pop. Un punto in cui fermarsi e osservare il futuro.