Prima di scrivere del nuovo, bellissimo, disco dei Delines, mi concedo una breve parentesi personale. Conoscevo la band statunitense, che fa capo a Willy Vlautin (già nei Richmond Fontaine al pari del bassista Freddy Trujillo), sin dalla sua costituzione: di fatto si trattava di qualcosa di simile a un supergruppo, se consideriamo che della prima formazione faceva parte anche Jenny Conlee, tastierista dei Decemberists.

Credit: Bandcamp

Il mondo di riferimento era quello, volendo sintetizzare, dell’alternative country e ricordo che lessi delle recensioni non sentendo poi il bisogno di approfondire. All’epoca dei primi dischi del gruppo ero sintonizzato musicalmente altrove, di dischi ne escono (come sapete bene voi lettori) tantissimi e, insomma, decisi di passare oltre.

Un giorno però di due anni fa, mentre giocavo con mio figlio, in sottofondo You Tube alternava brani da me già ascoltati e altri per bambini (come stabilì l’algoritmo che si doveva anch’esso destreggiare per capirne qualcosa!), finché a un certo punto partirono le note di quella che poi scoprii essere “Drowning in Plain Sight”.

Rimasi completamente rapito da quel sound, dalla voce della cantante, dalla tromba solenne che si inseriva magistralmente, e senza accorgermene mi ritrovai in lacrime, commosso da quel che avevo appena sentito.
Da tempo non provavo quel tipo di emozioni per una canzone, e mi venne naturale andare subito alla ricerca di chi fossero gli autori.
Fu così che il nome dei Delines (da Portland, Oregon) rifece capolino nella mia memoria, solo che stavolta volli approfondire e, visto che ora è facile recuperare dischi anche vecchi (uno dei motivi per cui salvo la tecnologia dilagante in musica!) mi fiondai su “The Sea Drift”, di cui “Drowning in Plain Sight” è la terza traccia.

Fu amore al primo ascolto: acquistai il cd, ormai ero fuori tempo massimo per scrivere una recensione ma ugualmente avvertii l’esigenza di divulgare quella mia tardiva scoperta musicale ad amici appassionati, riuscendo in extremis a inserire il disco come mio preferito del 2022.

Torniamo ad oggi, visto che come avrete capito da allora ho sempre atteso un nuovo lavoro dei Nostri, in parte venendo ripagato da “The Night Always Comes” del 2023, sorta di colonna sonora del romanzo omonimo scritto da Vlautin (che è scrittore affermato negli USA).

È tempo quindi di “Mr.Luck & Ms. Doom”, anch’esso anticipato da un nuovo romanzo a firma Vlautin che con “Il cavallo” (“The Horse”, edito in Italia da Jimenez, con traduzione di Gianluca Testani), ha tratteggiato una faccia dell’America diversa da quella tutti lustrini e opulenza, con protagonisti spesso al limite, tra degrado, distruzione e redenzione.

Temi difficili da raccontare nelle canzoni, ancora di più è farlo connotando il tutto di eleganza e profondità, sia da un punto di vista lirico che musicale.
E qui sta il “miracolo” dei Delines, i quali in queste undici nuove canzoni riescono a tradurre con grande sensibilità e delicatezza varie storie borderline, come nel caso della title-track dove la magnifica vocalist Amy Boone trasmette tutta la forza e la dignità della protagonista, una Ms. Doom che si perde tra le braccia e il corpo di un ex galeotto, oppure conosciamo Nancy che in “Nancy & The Pensacola Pimp” si ritrova vittima di un magnaccia che poi però dovrà pure sposare.

Non c’è comunque solo disperazione nelle parole scelte da Vlautin (che dei Delines è chitarrista, oltre che compositore principale), ma in primis la volontà di raccontare storie di vita, ricreando una certa suspence narrativa con utilizzo di immagini vivide, forti, così come lo sono i pensieri (e non solo le azioni) dei personaggi evocati.

Vi è però una differenza sostanziale tra romanzo e forma canzone, ed ecco quindi che quest’ultima emerge ridimensionando la durezza delle parole. Non solo per via del canto limpido e pieno della Boone ma anche grazie ad arrangiamenti deliziosi dove a colpire sono soprattutto i fiati ad opera del polistrumentista Cory Gray.
Essi non risultano mai invasivi, piuttosto direi che sono più che funzionali al progetto, fungendo da colonna portante della struttura musicale al pari degli inserti pianistici, che donano allo stesso modo solennità al disco.

È un suono caldo e riflessivo, nella sua omogeneità, quello che contraddistingue pezzi come “Her Ponyboy”, la struggente “JP and Me”, la malinconica “There’s Nothing Down the Highway” o la conclusiva “Don’t Go Into that House Lorraine”, che si discosta dal ritmo pulsante (in odor di jazz) di “Left Hook Like Frazier” e dai graffi melodici di “Maureen’s Gone Missing”, andando così a smentire chi reputa i Delines sin troppo monotematici.

Il fatto è che la storia della musica è piena zeppa di artisti che hanno continuato per tutta la carriera a riproporre più o meno la stessa canzone, cosa che non costituirebbe di per se’ un problema, ma spesso questo approccio denota una certa pigrizia o peggio la mancanza di ispirazione.

Non è certo il caso dei Delines, che invece hanno confezionato un album davvero intenso e significativo in ogni sua parte, dove ti puoi ritrovare a scoprire dei dettagli nascosti ad ogni ascolto, o farti rapire da un particolare arrangiamento (in “The Haunting Thoughts” il pianoforte e l’organo sono da pelle d’oca): le emozioni giungono copiose ed è difficile dare loro un nome.

Possono essere solo suggestioni, immagini che arrivano improvvise, sbiadite polaroid, ma di fatto entrano nel cuore e non lo lasciano più.