LEGGI LA CLASSIFICA DI INDIEFORBUNNIES DEI MIGLIORI 50 DISCHI DEL 2016: posizioni #50 -> #26 / posizioni #25 -> #1

Questi anni 10 sono una autentica delusione, almeno per quello che hanno fatto vedere in questa abbondante prima parte.
Non fa eccezione questo 2016, ancora una volta con il segno meno alla borsa di indiebar. L’anno era cominciato in salita con la scomparsa di David Bowie, che ha lasciato un vuoto incolmabile nel quale echeggia un capolavoro quasi postumo che ne è il testamento spirituale. Il tributo che la musica ha pagato è stato pesante, aggiungendo alla morte del duca bianco quella di Prince, Leonard Cohen, Keith Emerson e Greg Lake, Craig Gill degli Inspiral Carpet, James Woolley dei Nine Inch Nails, George Martin (il “quinto” dei Beatles), Maurice White degli Earth, Wind And Fire, Glen Frey degli Eagles.
Tornando alla musica seguendo l’istinto e le antiche simpatie mai sopite abbiamo messo insieme la nostra top 10, aiutati dal contatore delle riproduzioni che è un parametro più che valido per misurare quali album ci siano piaciuti in base a quante volte li abbiamo ascoltati.

#10) TINDERSTICKS
The Waiting Room

[Domino]

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Li avevo persi totalmente di vista, mi ero arreso una decina di anni fa, convinto che quella vena noir che stava come un buon aceto balsamico sul pop orchestrale sbilenco della band di Nottingham fosse evaporata. Li vedevo passare senza nemmeno soffermarmi. Poi questo “The Waiting Room” che, non so perchè, attira l’attenzione. E si riaccende la lampadina, alimentata da un suono divenuto possibilmente più maturo, con mille sfumature di grigio, senza mai cadute di stile o rallentamenti. Non male come colpo di coda per Stuart Staples e soci.

#9) NICK CAVE & THE BAD SEEDS
Skeleton tree
[Bad Seed Ltd]

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Ecco un altro artista che non delude mai. Un lungo (e lento) viaggio dentro se stessi che l’artista australiano ha voluto fare, forse per elaborare il lutto patito con la tragica scomparsa del figlio. In realtà  di quel evento non vi è traccia, coerentemente con un artista che non è mai stato banale in una lunga carriera giunta al 16.mo album. La copertina con la schermata nera e le scritte verdi come nei computer preistorici già  faceva presagire a qualcosa di scarno, essenziale, primordiale. Un album certo non facile, servono alcuni passaggi ed un buon umore di partenza, per arrivare alla fine. Ma lo sforzo alla fine viene premiato.

#8) BON IVER
22, A Million
[Jagjaguwar]

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Justin Vernon gioca a distruggere il puzzle che ha composto nelle precedenti pubblicazioni e sperimentare con gli stessi pezzi nuove forme e figure musicali, sperimentando nuovi orizzonti e disorientando lo sprovveduto ascoltatore. Un po’ lo aspettavamo al varco noi teorici del “terzo album” e lui invece ha voluto sorprenderci ancora una volta. Dall’elettronica glitch al songwriting sconclusionato è facile perdersi nelle mille sfaccettature di questo disco. Diciamo che per Vernon questo è un po’ il suo personale “Kid A”.

#7) CAR SEAT HEADREST
Teens Of Denial
[Matador]

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Dopo anni passati da bedroom rocker ad incidere brani e pubblicarli su Bandcamp, ecco l’opera prima full lenght di Will Toledo sotto moniker Car Seat Headrest. Ed è subito un successo. Il sound accarezza i Pavement, Yo La Tengo, gli Strokes e a volte i Pixies. Gli amanti del genere “slacker” non possono che avere questo disco tra le preferenze dell’anno. I brani scivolano via velocemente, con la loro struttura semplice, melodica e ormai retrò dato che sa di anni ’90. Incluso la ballata della Costa Concordia da oltre 11 minuti, con tanto di orchestra.

#6) DAVID BOWIE
Blackstara
[Sony Music]

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Il nostro non è buonismo e nemmeno un premio ad una carriera di una star che ha cambiato il percorso della musica mondiale varie volte. Abbiamo davvero trovato solamente 5 dischi migliori di questo. Si perchè abbiamo apprezzato l’anima sperimentale dell’opera cui la voce affaticata ma non stanca di vivere imprime una traccia indelebile nell’animo dello sprovveduto ascoltatore. Prog, glam, jazz, indie, noise rock. Ho dimenticato qualche cosa? No, questo disco è davvero bello anche se chiude il sipario di una carriera indescrivibile, di un uomo mai banale che adesso ci guarda da lassù dove si è rifugiato, magari come una stella nera.

#5) THE KILLS
Ash & Ice

[Domino]

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Se appartieni ad un duo garage che ha già  alle spalle 4 dischi e calca le scene da 16 anni cos’altro puoi inventarti? Provi da inseguire nuove sonorità  ben sapendo di scontentare alcuni ed accontentarne altri. Quindi elettronica low-fi, suoni glitch, a tratti wave, decisamente più pop. Ecco a me l’esperimento è piaciuto, così come la storia che ha ispirato questo disco, con i due artisti che si separano e scrivono ognuno la sua storia, per poi farla convergere in 13 tracce, con racconti dalla steppa siberiana ad un isola sperduta. E naufragar m’è dolce in questo mare.

#4) DAUGHTER
Not to disappear
[4AD]

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La band londinese nata attorno alla sua leader Elena Tonra, da alle stampe il secondo convincente album che da subito entra in heavy rotation nel nostro riproduttore. Un dream pop in salsa folk dalla semplicità  disarmante, con un cantato vellutato che va dritto al cuore. Forse non costante nella ripartizione delle emozioni, tutte sprofondanti verso il dark, ma sempre capace di catturare l’attenzione. Forse il fatto di essere stato pubblicato a gennaio ha avuto più tempo di altri dischi per farsi conoscere. Ma tant’è. Eccolo qui, a ridosso del podio.

#3) SUNFLOWER BEAN
Human Ceremony
[Fat Possum]

Il miglior disco d’esordio dell’anno nasce a Brooklyn, New York, e sa di Lush, Sonic Youth, Sundays. Ma anche Led Zep e Black Sabbath. Colpisce la sfrontatezza di questo trio, nel riproporre quello che è già  stato propinato in mille salse come se fosse una novità . Ed infine piace, proprio perchè familiare ma diverso, il nostro orecchio già  conosce quei suoni ma li percepisce come diversi. Non sappiamo se alla fine sia coraggio o paraculaggine, ma se ci sono solo due dischi che abbiamo ascoltato più di questo un motivo ci deve pur essere.

#2) BOB MOULD
Patch The Sky

[Merge]

Fa quasi sorridere pensare che Bob Mould possa aver raggiunto la sua maturità  artistica dopo la bellezza di 11 dell’era post Husker Du. In pratica ci vorrebbero due vite normali per fare tutto quello che Bob ha fatto in una metà . Ma qui Mould torna ad essere quello che conoscevamo ai tempi di Copper Blue. Un disco carico, veloce, che va dritto al core (volutamente senza la “U”), il nucleo del discorso. Lo stampo di fabbirca è quello, non c’è quasi nulla da scoprire. Ma in un mondo che si attorciglia in ghirigori elettronici per scoprire la diversità  ecco che ti arriva un Bob Mould con il suo sound pane e salame e sbaraglia (quasi) tutta la concorrenza. Ascoltato alla nausea, sfiora la perfezione.

#1) MODERAT
III

[Monkeytown]

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Da anni predico la teoria del “terzo disco” e quindi se fossi Sasha Ring (aka Apparat) e gli amici Modeselektor, dopo questo disco gliela darei su. Si perchè con questo disco il sound ha raggiunto la perfezione, dopo l’abbandono di sonorità  dubstep verso una minimal techno quasi di routine, con tratti glitch e divagazioni da dancefloor. Un autentico tormentone è “running”, una traccia ideale per una corsa al parco, con quella voce vellutata che ti incita: “keep on running” con 130 Bpm a spingere le gambe in avanti. Se puoi avete acquistato il disco in “special edition” trovate altri due dischi di remix e di instrumentali, per un lungo viaggio nel sound elettronico minimale berlinese.