10. KARMA
K3
[ Vrec ]
La nostra recensione

Ormai ci avevamo messo una pietra sopra. Erano passati 27 anni dal secondo disco dei Karma (Astronotus) e la band milanese quella stessa pietra l’ha messa sulla copertina del terzo e convincente album, K3, come una nuova vetta da scalare, una nuova sfida.
Il repertorio musicale è un consolidato desert rock, psichedelico e progressivo, cantato in italiano con liriche intelligenti, sospese tra il viaggio introspettivo dei delicati rapporti umani, la conflittuale relazione tra uomo e natura, tra terra e cielo, il giorno e la notte. Quanto basta per chiudere gli occhi ascoltando questo album che sembra più breve dei 54 minuti, splittato su 2 vinili.

Intenso.

9. FOREST SWORDS
Bolted
[ Ninja Tune ]
La nostra recensione

Se chiedessimo all’intelligenza artificiale di creare un sound che sia il punto di incontro dell’Hyper-dub di Burial con le cose più estreme di Aphex Twin, probabilmente ne uscirebbe questo album di Matthew Barnes, da The Wirral, Liverpool, al secolo Forest Swords.
Questo sound post-industriale, scomposto e schizzoide, proiettato nel futuro, con rarissime tracce vocali (Neneh Cherry è la guest vocalist di “Butterfly Effect”), quasi dei sussurri, dei mormorii, finisce per imbrigliarti e convolgerti.

Coinvolgente.

8. BOYGENIUS
The Record
[ Interscope ]
La nostra recensione

BOYGENIUS – THE RECORD

“Ingredienti buoni, piatto buono”, diceva mia nonna tempo fa.

Se mettiamo insieme Lucy Dacus, Julien Baker e Phoebe Bridgers e le facciamo registrare l’album  agli Shangri-La Studios di Malibu, guidate da Catherine Marks (Wolf AliceThe Big MoonThe Wombats), e mixate da Mike Mogis (Brigth Eyes) il risultato non può che essere positivo.
Ma il salto definitivo al disco lo fa compiere l’alchimia delle tre talentuose ragazze, che danno a questo album uno spirito indie-folk-rock con nostalgia del passato (addirittura alla Simon & Garfunkel su “Cool About It”) e contemporaneità dei testi e la modernità delle tematiche. L’unione dei singoli è superiore alla somma degli stessi.

Unificante.

7. SLOWDIVE
Everything Is Alive
[ Dead Oceans ]
La nostra recensione

Come uno di quei vini rossi robusti, che quando lo stappi ti disturba quasi, quando lo versi speri che migliori, e man mano che lo fai girare nel bicchiere acquista corpo e matura il sapore, allo stesso modo questo Everything is Alive, secondo album della seconda vita degli Slowdive (5 in totale) da Reading, UK, ad ogni giro di turntable migliora e consolida le sfumature shoegaze e dreampop delle quali è intriso. 
Un affascinante flusso di chitarre, basso, voci sussurrate ed inintelleggibili, con la batteria appoggiata a scandire il battito cardiaco di questa strana creatura musicale, sopravvissuta a oltre 3 decenni di altri generi che spuntavano come funghi, che non ha perso una virgola del suo smalto.
Come nella sua copertina, l’album è un labirinto sonoro in cui perdersi gradualmente, senza nemmeno preoccuparsi di non trovare una via d’uscita. Per poi scoprire che la via d’uscita è pure l’accesso. E ti guardi sempre le scarpe, shoegazer che non sei altro.

Labirintico.

6. YEULE
Soft Scars
[ Ninja Tune ]
La nostra recensione

Si è autodefinita Glitch Princess con il titolo del precedente album, questa artista nativa di Singapore e di base a Londra, di nome Natasha Yelin Chang also known as Yeule.
La sua musica riflette le sue passioni: l’elettronica, Björk e i Pixies.
Questo noise elettronico, scomposto ed abrasivo, contrapposto ad una voce vellutata quasi adolescenziale, fanno della musica di Yeule la più strabiliante sorpresa del 2023.
Un personaggio che sembra uscito da un film cyberpunk di manga impersonificati che adagia chitarre distorte su riff elettronici ossessivi. What else?
Il disco è godibile nei suoi cambi di ritmo e di sound, momenti riflessivi e travolgenti tempeste digitali.

Travolgente.

5. BDRMM
I Don’t Know
[ Rock Action ]
La nostra recensione

La band di Hull, UK, sembrava con il primo album aver preso in mano le redini dello shoegaze ed averne indicato il futuro. Ma la loro ambizione gli ha fatto gettare il cuore oltre l’ostacolo, e passando alla label dei Mogwai, hanno inserito l’elettronica sperimentale nella loro texture di chitarre, facendo salire la qualità del prodotto ed allargando lo spettro dei riferimenti: non più Cure, Ride, DIIV ma anche i Radiohead del periodo “Kidamnesiac”. Ma si allarga anche l’orizzonte musicale, si esce dal solito cliquè dei guardatori di scarpe e si alza lo sguardo oltre all’orizzonte.
Contrariamente a quanto dichiarato nel titolo, i BDRMM sanno esattamente dove vogliono andare…

Contaminato.

4. BLONDSHELL
Blondshell
[ Partisan ]
La nostra recensione

In soli 9 pezzi e 32 minuti Sabrina Teitelbaum con origini Newyorkesi ed ebraiche, dimostra quanto bene abbia fatto ad abbandonare i suoi esordi pop sotto moniker BAUM e lasciare fluire il suo talento di songwriter contemporanea in salsa indie-rock.
Ci racconta spaccati di vita vissuta, relazioni difficili e malate (“Sepsi”), la sua bisessualità e le metropoli che inghiottono i propri abitanti. Il tutto ricordandoci la PJ Harvey di “To bring you my love” con una voce potente ed armonica, ma anche la sfrontatezza di Liz Phair e una certa somiglianza sonora con le Hole.
Poi ti sorprendi a canticchiarla mentre aspetti la metropolitana.

Virale

3. BLUR
The Ballad Of Darren
[ Parlophone ]
La nostra recensione

Ho atteso questo disco controvoglia, come attendendo il mio turno per prendere una medicina amara. Con la paura ed inquietudine che avrebbe chiuso per sempre il mio amore per i Blur, come successo per tantissime altre band.
Ma invece ecco che i Blur ritornano a fare i Blur, sfacciati ed insolenti, ripartono da “Modern Life Is Rubbish” con quel singolo “St. James Square” che sembra quasi un B-Side di uno dei loro dischi più sottovalutati, ricordano “Coffee and TV” in “The Narcisist” e giocano con reminiscenze di Bowie del periodo “Lodger” e la trilogia berlinese un po’ ovunque.
Onestamente non potevo chiedere di più da una band che ha scritto la storia del british pop oltre che di una buona fetta della musica degli anni ’90. E che ha sempre saputo reinventarsi e trovare nuove strade da percorrere, invece di perdersi in un niente per eccessi di fama e capricci da superstar.

Chapeau.

2. FEVER RAY
Radical Romantics
[ Rabid Records ]
La nostra recensione

La copertina agghiacciante è il manifesto dell’intento di Karin Dreijer, l’altra metà dei The Knife che già ci hanno strabiliato agli inizi degli anni 2000: sbalordire, colpire.
Nell’essere romantici radicali, Fever Ray esprima la sua ricerca nell’amore assoluto, gender neutral, sensuale ed alieno al tempo stesso. “Voglio essere toccata / voglio fremere” dice in “Shiver”, brano manifesto dell’album. Ma anche la voglia di vendetta in “Even It Out”, storia personale di bullismo scolastico del figlio. Emozioni fortissime, estreme, tenute insieme da un parterre di produttori e collaboratori di tutto rispetto, dal duo Trent Reznor / Atticus Ross al fratello Olof, presente su ben 4 tracce, poi Sebastian Gainsborough, Peder Mannerfelt, Pär Grindvik, NÍDIA e Johannes Berglund.
Un album maturo, estremo e spiazzante, che fallisce nel tentativo di tenerti distante in quel gioco tra eros e thanatos, amore e morte che alla fine attraggono in egual misura.

Sensuale.

1. ORBITAL
Optical Delusion
[ Orbital Rec. ]
La nostra recensione

Per il loro decimo album in studio i fratelli Phil e Paul Hartnoll hanno messo in campo tutto il loro mestiere maturato in oltre 30 anni di musica elettronica in tutte le salse dance. Ma se in passato si sono dedicati prevalentemente alla parte strumentale, con ricerche armoniche infinite come il maestro Jean-Michel Jarre, per questo album il salto di qualità lo hanno fatto ispirandosi ai colleghi più giovani che si fingono fratelli, i Chemical Brothers, ed hanno invitato delle guest star non appariscenti ma che hanno dato spessore all’album.
A cominciare dagli Sleaford Mods del primo singolo pre–release “Dirty Rats” il cui spoken words sembra non centrare nulla con la musica da dancefloor degli Orbital, ma che finisci per canticchiarla sotto la doccia.
E che dire di Anna B. Savage, con quella sua voce da chanteuse da cafè chantant parigino, adagiata su ritmi sincopati ed incalzanti drum ‘n bass sul perfetto brano “Home”.
Ma anche le altre guests tipo Coppe, Penelope Isles, Dina Ipavic rendono il disco praticamente perfetto, ripetibile, godibile, semplice, malgrado il sabotaggio dell’orribile copertina.
In un’annata di grandi scoperte e attesi ritorni, i due fratelli attempati di Sevenoakes, Kent, hanno saputo strabiliare con incredibile semplicità.

Strabiliante